La travagliata storia dei COM.IT.ES, comitati degli italiani all’estero all’occasione del loro rinnovo. A 25 anni della loro nascita, tra buoni propositi iniziali e difficoltà croniche, quest’istituzione non è mai veramente decollata. Le cifre del disinteresse sono lì a testimoniarlo. Nel momento in cui chiudiamo questo numero non conosciamo ancora il risultato dello scrutinio che vi forniremo nel prossimo RADICI.

Secondo lo storico britannico John Torley, alle prime elezioni della storia, quelle nell’Atene classica, si recava alle urne tra il 10 e il 20 per cento del totale della popolazione. I limiti erano tanti: per votare era necessario essere uomini e liberi. Duemila e cinquecento anni dopo questi paletti sono caduti, ma c’è un’elezione che registrerà un’affluenza ancora più bassa: non per i limiti esterni, ma perché sembra non interessare a nessuno. Alla tornata elettorale dello scorso 17 aprile per eleggere i Comites, gli enti di rappresentanza per le comunità di italiani all’estero, si sono registrati al voto solo 6,5% degli aventi diritto. E, quelli che effettivamente hanno votato, sono ancora di meno. In Francia, in modo particolare, sono andati a votare gli italiani raggruppati in sette circoscrizioni consolari: Parigi, Lione, Marsiglia, Metz, Nizza, Chambery e Lilla (in queste ultime due sedi, il consolato è stato soppresso). Sono invece stati eliminati i Comites di Bastia, Bordeaux, Toulouse, Grenoble, Mulhouse e Digione.

Salta comunque subito agli occhi il dato bassissimo del numero di elettori che, nel mondo, si sono “volontariamente” registrati. Su 3 milioni e 747 mila iscritti all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, solo 243 mila hanno chiesto di ricevere la scheda elettorale. E in Francia? A Parigi, per esempio, i numeri raccontano di una realtà lievemente migliore rispetto al dato complessivo: il 7 per cento dei 94 mila residenti. Non c’è dubbio che siamo di fronte ad una scarsa rappresentanza con poco meno di 8 400 elettori iscritti al voto su 94 mila. Il dato francese nel complesso è in linea con quello mondiale. La risposta migliore di partecipazione si è avuta a Chambery, dove si sono registrati il 10% dei potenziali elettori. A fare da fanalino di coda c’è Metz con il 4,9%, solo 3.200 schede richieste su una comunità globale di 64mila italiani. In mezzo ci sono i dati di Lione (intorno al 6%), Lilla (5,1%) e di Marsiglia e Nizza, entrambe tra il 6 e il 7%.

E il paragone con le precedenti affluenze non suscita più ottimismo. L’affluenza complessiva era stata del 20% nel 1997, addirittura del 34 % nell’ultima tornata per l’elezione dei Comites, quella del 2004. E questa è la seconda stranezza: i comitati uscenti sono rimasti in carica più di un decennio, mentre avrebbero dovuto durare cinque anni. La ragione? Semplice. Mancanza di fondi per indire le elezioni (quelle del 17 aprile sono costate alle casse dello Stato quasi 7 milioni di euro) e tentativi di riforma frequentemente abortiti. Una situazione “incresciosa”, per usare una definizione del sottosegretario agli Esteri Mario Giro, che fa ben capire come il disinteresse per i Comites abbia radici profonde non solo tra gli elettori, ma anche in Italia. Come se nessuno ci credesse più. E, a dire il vero, i motivi non mancano.

La nascita di questi “parlamentini degli italiani all’estero” è stata lunga e travagliata. Il loro prodromo risale addirittura al 1967, quando vennero istituiti i Coasit, Comitati di assistenza italiani, con scopi simili a quelli dei Comites, solo che i membri erano nominati dai consolati e non scelti dai cittadini. Per giungere alle prime elezioni bisognerà aspettare il 1985 con la nascita dei Coemit. Un susseguirsi di sigle da settimana enigmistica, che si è ripetuto fino al 2003, quando si è arrivati alla formulazione degli attuali Comites. L’impulso all’ultima riforma venne dall’allora ministro per gli italiani all’Estero, l’ex missino Mirko Tremaglia, estensore anche della legge che nel 2001 consentì il voto agli italiani all’estero per eleggere il Parlamento. Fino ad allora, infatti, gli italiani residenti all’estero non avevano altra scelta che di recarsi personalmente nei rispettivi paesi di origine.

La successiva tornata elettorale per i Comites, prevista l’anno dopo l’istituzione della nuova legge, nel 2004, servì a testare il voto di corrispondenza e creare per Tremaglia e il suo partito, Alleanza Nazionale, un bacino elettorale fuori confine in vista delle politiche previste, due anni dopo, nel 2006. Ma le leggi, si sa, sono bestie poco fedeli, e spesso capita che si rivoltino contro i propri artefici. Le 75 liste “Tricolore” volute da Tremaglia conquistarono pochissimi voti, mentre a trionfare furono i raggruppamenti civici e le liste collegate all’Ulivo di centrosinistra, una situazione che si ripeterà alle politiche, quando proprio i seggi esteri si riveleranno determinanti per la vittoria di Romano Prodi.

Inizia così a delinearsi quella che, in fondo, è ancora oggi la principale funzione (almeno visti dall’Italia) dei 128 Comites distribuiti in 38 Paesi: preparare il bacino elettorale dei candidati alle elezioni del Parlamento nazionale nelle circoscrizioni estere. Da qui la presenza più o meno forte dei partiti politici accanto ai Comites. Non a caso, la lista dei parlamentari che hanno fatto gavetta nei Comites è lunga, e non sempre costellata da personalità di alto profilo. Si va dalla nutrita pattuglia PD (Claudio Micheloni, Riccardo Merlo e Gianni Farina, quest’ultimo transitato anche da Parigi) al forzista Antonio Razzi (eletto con L’Italia dei Valori e poi traslocato con Forza Italia), passando per i Maie (Movimento Associativo Italiani all’Estero) Fabio Porta e Mario Borghese.

E dire che la legge assegnerebbe ben altri compiti ai parlamentini: “Sviluppo sociale, culturale e civile della comunità di riferimento” e, soprattutto, “la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini italiani residenti nella circoscrizione consolare”.

Ma allora, se le attribuzioni, almeno sulla carta, sono così importanti, perché le elezioni dei Comites suscitano poco interesse tra gli elettori e gli eletti, tanto che in molte importanti città (Bangkok, Bogotà, Bucarest, Lisbona, Praga, San José e Stoccolma) non si è addirittura presentata alcuna lista? Certamente perché, per svolgere le tante funzioni, le risorse a disposizione sono state tagliate così pesantemente che molti Comites si trovano praticamente nell’impossibilità di svolgere il proprio operato. Le cifre stanziate dalla Farnesina (sede del Ministero degli Affari Esteri – da cui dipendono i Comites) relative al sostegno nel 2014, parlano di un milione 700 mila euro, in media poco più di 13 mila per ogni sede. Eppure si stanziato quattro volte tanto per indire le elezioni.

Questi soldi però, anche se pochi, potrebbero essere spesi bene, cosa che non sempre è avvenuta. L’esempio più lampante è il Comites di Parigi che nel 2013 fu costretto a destinare 20 mila euro dei 25 mila complessivamente ricevuti dal ministero per pagare gli affitti pregressi. Una situazione che ha determinato lo sfogo del Console di Parigi, Andrea Cavallaro, che (non senza ragione) ha accusato il Comites di essere responsabile della situazione d’indebitamento poi risolta grazie al contributo pubblico. Ma il problema non riguarda solo Parigi: sapere come i Comites spendano i pochi fondi a disposizione non è semplice, visto che quasi nessuno pubblica i bilanci e la maggior parte non ha nemmeno un sito internet. Noi stessi pur avendoli richiesti a tutti, li abbiamo ricevuti solo dal Presidente Angelo Campanella del Comites di Lione. E questa la dice lunga sul legame di trasparenza instaurato con gli italiani.

Ma tra le cause della bassa affluenza c’è sicuramente anche la riforma sul sistema di voto che è all’origine degli ultimi rinvii delle stesse elezioni, prima previste ad aprile 2014, poi a dicembre 2014 e finalmente ad aprile 2015. E qual è questa riforma? Si chiama inversione dell’opzione. In pratica, ribalta lo schema classico che prevedeva l’invio della scheda elettorale all’indirizzo di tutti gli italiani iscritti all’Aire affinché potessero poi votare per corrispondenza. Con il nuovo sistema la scheda questa volta non è stata spedita a tutti gli aventi diritto, ma solo a coloro che, entro il 18 marzo scorso, ne avevano fatto esplicita richiesta al Consolato.

L’intento, alla base della riforma, era pieno di buone intenzioni: si voleva evitare l’invio di milioni di schede inutili, così da impedire che queste ultime fossero utilizzate, come peraltro è successo in migliaia di casi, per brogli elettorali. In più, nelle intenzioni iniziali del legislatore, questa nuova riforma doveva valere per le future elezioni del Parlamento, e si è deciso di testarla in questa tornata di Comites. Ma se gli intenti erano buoni, lo stesso non si può dire dei risultati. Un dato per tutti: l’ultimo rinvio delle elezioni, quello di dicembre scorso, è stato un disperato tentativo di evitare una consultazione con le urne deserte, visto che si erano registrati al voto solo il 2% degli iscritti Aire.

A rendere ancora più singolare e paradossale quest’elezione c’è l’esiguo numero di liste presentate: solo due a Parigi e Lione, addirittura un listone unico nelle altre cinque circoscrizioni. Anche se formalmente le liste non sono legate con nessun partito, nella capitale francese si sono fronteggiate una lista considerata vicina al centrosinistra (Democrazia, Rinnovamento e Partecipazione) e una più conservatrice (Diritti e difesa Italiana). A Lione invece la scelta è tra il Comites uscente “Italiani cittadini d’Europa” e “Rinnovamento e servizio”, guidata dal giornalista di Euronews Claudio Rocco. E fatto strano, gli elettori di Chambery, Metz, Nizza, Marsiglia e Lilla si ritroveranno a dover eleggere 12 nomi su una lista di 16. Insomma una situazione che ricorda più un plebiscito che una vera e propria elezione democratica.

Cosa diventeranno allora i Comites e come fare affinché una ristrutturazione dia loro un vero ruolo di rappresentanza e promozione dei diritti degli italiani all’estero?

I nuovi eletti, diciamocelo con sincerità e senza ipocrisie, purtroppo, non avranno nessun potere e nessun mezzo per cambiare le cose. Ecco perché la loro pur lodevole abnegazione di aver fatto campagna elettorale come hanno detto per “cambiare le cose”, si scontra con il dato di fatto di un’istituzione che assomiglia più a una medaglia al valore che una risposta moderna alle esigenze degli italiani nel mondo. Le cifre della loro reale rappresentanza democratica sono, purtroppo, lì a confermarlo.

Alessio Schiesari