Negli arcipelaghi del Sud dell’Italia, anche i più remoti lembi di terra furono colonizzati in epoca borbonica.

Nel 1734 Carlo III di Borbone diventa re di Napoli e di Sicilia. Del suo nuovo regno fanno parte 14 isole disseminate fra Tirreno e Adriatico. Alcune, come quelle Pontine al largo di Gaeta, erano un regalo della madre Elisabetta Farnese, che le aveva acquistate da privati. Altre, come le Tremiti, di fronte al promontorio del Gargano, furono donate dai canonici Lateranensi. Le Eolie facevano parte del Regno di Sicilia mentre, più a sud di tutte, Lampedusa, isola privata dell’inglese Alessandro Fernandez, dopo varie vicissitudini fu acquistata definitivamente per 12mila ducati nel 1839. Tutte isole che avrebbero potuto rimanere semplici scali di passaggio o scogli semiabbandonati, poveri e improduttivi, com’erano state per secoli. Invece si decise di popolarle per sfruttarne i terreni coltivabili. Come? Convincendo gente disposta a trasferirsi in quei luoghi remoti, con incentivi economici e promesse.

Fu Ferdinando IV di Napoli (dal 1816 Ferdinando I delle Due Sicilie) a porsi per primo il problema di popolare quelle isole che, al contrario di Ischia e Capri, abitate da sempre, erano allora semideserte. In un primo momento, il re si propose di prendere due piccioni con una fava: allontanare da Napoli una serie di persone non gradite (piccoli delinquenti per lo più) e, attraverso il trasferimento coatto, colonizzare le isole. Fu questa la soluzione iniziale sperimentata alle Tremiti e a Ventotene. Andò male: spuntarono case, ma non campi coltivati: gli ex detenuti preferivano vivere piuttosto di espedienti che mettersi a zappare quelle terre ricevute in regalo. Il re scelse allora un’altra strada. Il 28 luglio 1771 firmò un decreto che istituiva le colonie delle isole Tremiti, di Ventotene, di Ustica e di Lampedusa. I coloni sarebbero stati scelti tra chi viveva in povertà o era senza lavoro.

A ogni colono veniva assegnato un terreno dove costruire una casa, insieme con 5 tomoli (circa un ettaro e mezzo) di terra coltivabile. Ognuno riceveva poi strumenti agricoli e un piccolo capitale per 3 anni, per superare le difficoltà dei primi tempi. In qualche caso, come alle Tremiti e a Lampedusa, si insediarono ladri, vagabondi e “gente trista della capitale che resta liberata”, come si legge nella Cronaca civile e militare delle Due Sicilie di Luigi Del Pozzo (1857).

Nell’editto c’era un “invito a chi vuole portarsi ad abitare nell’isola di Ventotene e coltivarla accordando alcune franchigie”. Ai delinquenti trasferiti con la forza e ai coloni volontari la legge concedeva uguali opportunità: i soliti 5 tomoli di terreno, la casa e gli strumenti per la coltivazione. Chi invece preferiva dedicarsi al mare riceveva “gli ordigni necessari per la pesca”.

Non tutto filò liscio: negli anni si moltiplicarono liti e contenziosi tra i coloni, che costringevano i governatori a continue mediazioni. “Ogni usurpazione e frode può far espellere dall’isola il colono”, dispose Ferdinando IV, esasperato. Nel 1781 si passò dalle parole ai fatti, con le prime espulsioni, da Ponza e Ventotene, di “coloni infingardi affinché non fussero di esempio e di peso”. Per fortuna la maggioranza non seguì l’esempio degli “infingardi”: molto di quanto si ammira oggi dalle Pontine a Lampedusa fu realizzato da quei coraggiosi coloni. Come, ve lo spieghiamo in queste pagine.

Gigi Di Fiore e Piero Pasini

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