Dai piccoli teatri di provincia al Metropolitan di New York, la vita di “Big Luciano” è stata un susseguirsi di successi, fino alla consacrazione come icona popolare della lirica. Omaggio a 80 anni dalla nascita.

Ha detto un giorno Carlos Kleiber, il celebre direttore d’orchestra argentino: “Quando Pavarotti canta, il sole si alza sul mondo”. Il più grande tenore italiano di tutti i tempi compirebbe oggi ottant’anni. Era il 12 ottobre 1935, quando Fernando e Adele Venturi – piccolissima borghesia modenese, lui fornaio per l’Arma dei Carabinieri, lei sigaraia alla Manifattura tabacchi – misero al mondo il loro primogenito.
Il frugoletto – al quale, stando alle parole di Daniel Hicks del New York Times, Dio avrebbe “baciato le corde vocali” – era in realtà un bimbo come tanti, nell’assolata provincia contadina dell’Italietta fascista: un’infanzia piuttosto anonima, scandita dalle canzonette squillanti di regime e dai primi venti di guerra. Fernando era un attento collezionista di dischi e cantava nella Corale Gioachino Rossini.
Lì ben presto iniziò a esibirsi anche il piccolo Luciano, il quale, dando prova di un certo spirito di grandeur, amava imitare i più celebri artisti dell’epoca (Beniamino Gigli, Giovanni Martinelli, Tito Schipa, Enrico Caruso). Quando era a casa, balzava sul tavolo della cucina, allargava le braccia con fare teatrale e faceva il verso a qualche suo idolo. Lo chiamavano “il tenorino” e – diminutivo a parte – senz’altro ci avevano visto giusto. Qual è l’anello di congiunzione tra un grande talento e un grande artista? La domanda è tutt’altro che leziosa. Come molti altri geni, prima di prendere pienamente coscienza di ciò che Madre Natura gli aveva donato, anche Luciano Pavarotti ebbe bisogno di un certo periodo di tempo.
Da ragazzo sognava di fare l’insegnante di educazione fisica. Perciò si iscrisse all’istituto magistrale di Modena, lo stesso nel quale – di lì a qualche anno – avrebbe studiato pure Francesco Guccini. Insegnò anche per qualche tempo e in fondo la cosa non deve stupire – se è vero che Domenico Mudugno iniziò facendo il gommista ed Elvis Presley guidando i camion. È il 1954, quando papà Fernando avvicina timidamente il grande tenore Arrigo Pola – anche lui emilianissimo – per sottoporgli un quesito fondamentale: quanto è buona, secondo lui, la voce del giovane Luciano? A Pola bastano quindici minuti scarsi per rendersi conto che si trova davanti a un vero fuoriclasse. Per i successivi tre anni si occupa personalmente dell’educazione musicale del ragazzo. Lo fa gratuitamente, perché i Pavarotti sono in bolletta e non potrebbero permettersi di corrispondergli un regolare onorario. Rivelerà anni dopo il Tenorissimo: “Se non fosse per il mio caro maestro Arrigo Pola, non sarei quello che sono oggi”.

Nel 1961 Luciano Pavarotti esordì sul palcoscenico del Teatro Municipale di Reggio Emilia, interpretando il ruolo di Rodolfo ne La Bohème di Puccini. Quello stesso anno si sposò con una ragazza di Modena, bella, vivace ma stonatissima – come lei stessa avrebbe giocosamente ammesso nel corso delle future interviste: Adua Veroni, di un anno più giovane di lui. Fu così che il giovane tenore – non ancora barbuto e dal ventre appena accennato – diede il via alla sua strabiliante carriera. Nel 1963 fu al Covent Garden di Londra, dove – di fronte a quindici milioni di spettatori via etere – sostituì Giuseppe Di Stefano nel ruolo del solito Rodolfo. Nel 1965 esordì a Miami, e poi alla Scala di Milano: fu Herbert von Karajan in persona a volerlo sul palco. A ottant’anni dalla nascita – e otto dalla morte – Luciano Pavarotti resta quello che è sempre stato, un simbolo: il simbolo di un’Italia che aveva conquistato il mondo, lasciando a bocca aperta interi continenti e imponendosi clamorosamente nei campi dell’arte, del canto, della moda, del cinema, persino del calcio.
Non era l’Italia del boom – cioè quella del neorealismo, dell’arte di arrangiarsi e della fame postbellica come molla del cambiamento – perché quella era già passata. Era l’Italia che è venuta subito dopo, a cavallo tra la ricostruzione e i grandi scandali di Tangentopoli, e Luciano Pavarotti – popstar planetaria in salsa modenese – ne era forse l’emblema più conosciuto. “Penso che una vita per la musica sia una vita spesa bene – ha detto un giorno – è a questo che mi sono dedicato”. La sua carriera è punteggiata da improvvisi exploit, che hanno contribuito a fare di questo sorridente omone dalla chioma nera (“non sono un tipo malinconico”, confidò in un’intervista a Enzo Biagi) un idolo assoluto a livello mondiale. Il 17 febbraio 1972, al Metropolitan di New York, Luciano Pavarotti esegue nove do di petto perfetti, difficilissimi da emettere a voce piena. Il pubblico statunitense va letteralmente in visibilio, esplodendo in una ovazione senza precedenti nella storia dell’Opera: quella sera “big Luciano” verrà richiamato al sipario per ben diciassette volte, facendo registrare un record che fino a oggi non è ancora stato battuto. Cinque anni dopo, nel 1977, è di nuovo al Metropolitan, di fronte alle telecamere della tv d’Oltreoceano. La sua esibizione entra nel Guinness dei primati: mai, prima di allora, un’Opera teletrasmessa aveva segnato ascolti così alti. L’America lo adora: tra il 1978 e il 1998 il tenore italiano sarà insignito di ben sei Grammy Award, quattro come artista singolo e altri due in collaborazione con altri artisti. E ancora: nel 1992 sarà insignito della Legione d’Onore, nel 1990 sarà il primo interprete d’Opera a ottenere una statua di cera al museo Madame Tussauds di Londra. Nel 1999 gli sarà dedicato un asteroide, nel 2001 sarà premiato dalle Nazioni Unite per il suo impegno a favore dei rifugiati. Ben pochi personaggi pubblici – specie in un campo considerato “elitario” come quello dell’Opera – sono riusciti a ottenere tanto. Merito della televisione innanzitutto, che ha meritoriamente massificato ciò che prima era riservato a pochi.
E poi, da ultimo ma non da meno, merito dello stesso Pavarotti, che ha saputo reintrepretare in chiave originale quello che può essere considerato l’evento pop per eccellenza: il grande concerto all’aperto. Fece epoca, nel 1991, l’esibizione londinese a Hyde Park, di fronte a un pubblico di 330mila persone, tra le quali figuravano anche il principe Carlo e Lady Diana. Pavarotti cantò così bene – nonostante una forte pioggia battente – che oltre duecento personalità pubbliche britanniche vollero sottoscrivere una petizione affinché gli venisse conferito il titolo di Lord. Nel 1993 “big Luciano” si esibì al Central Park di New York (200mila spettatori) e all’ombra della Tour Eiffel a Parigi (70mila). “Proporre grande musica a un pubblico immenso come quello del Central Park è una operazione importantissima – annunciò Pavarotti – Certo, un’aria di Mozart o di Verdi eseguita in un teatro ha una valenza culturale maggiore di questi recital, ma è importante anche che la musica lirica e un certo tipo di musica popolare arrivino al pubblico di una grande città come New York”.

Era un’Italia diversa, dicevamo, che si era conquistata il giusto prestigio per potersi mettere in cattedra: tempi lontani, certo, soprattutto se messi a confronto con ciò che passa oggi il convento nostrano. Il 7 luglio del 1990, in occasione della finale del campionato del mondo di calcio, Pavarotti, José Carreras e Placido Domingo si esibirono a Roma, alle Terme di Caracalla: ebbe così inizio l’epopea dei Tre Tenori. Il successo fu così clamoroso che rischiò di oscurare l’attesissimo match iridato: furono richiesti 200mila biglietti, nonostante i posti disponibili fossero appena seimila. Il 17 luglio del 1994 l’evento venne bissato in quel di Los Angeles, dove Italia e Brasile stavano per affrontarsi nella finale di Usa ‘94: tra gli spettatori vi erano anche Frank Sinatra e Gene Kelly, in onore dei quali vennero eseguiti My Way e Singin’ in the rain. La felice accoppiata finale mondiale-concerto fu replicata nel 1998 in Francia e nel 2002 in Giappone. In contemporanea, si svolgevano ogni anno, nella città di Modena, i concerti benefici di “Pavarotti & Friends”, che videro avvicendarsi sul palco, accanto al “Tenorissimo”, drappelli di popstar del calibro di Elton John, Eric Clapton, George Michael, Sting, Andrea Bocelli, Bono Vox, Liza Minnelli, Céline Dion e Jon Bon Jovi. Anche Pavarotti, come tutte le icone che si rispettino, ebbe la sua buona dose di chiacchiere, gossip e pettegolezzi. Nel 2003, dopo dieci anni di storia semi-clandestina, “big Luciano” sposò la manager Nicoletta Mantovani, di trentaquattro anni più giovane di lui: gli echi della “scandalosa unione” tennero banco per mesi su rotocalchi e tabloid, pur non riuscendo a scalfire il leggendario buonumore del tenore emiliano (che non si è mai stancato di ripetere: “Nella vita ho avuto tutto, davvero tutto. Se mi venisse tolto tutto, con Dio siamo pari e patta”). Luciano Pavarotti è morto il 6 settembre del 2007, all’età di 72 anni, nella sua villa di Modena: aveva un tumore al pancreas, ma fino all’ultimo – forse memore del suo antico e fortunato rapporto col maestro Pola – aveva continuato a tenere lezioni di canto ad alcuni allievi particolarmente promettenti. Parlando dei segreti della sua arte, aveva detto: “Devi sempre considerarti uno studente; fin quando consideri te stesso come uno studente la voce non ti abbandona”. Grandezza e umiltà: questo era, in fondo, Luciano Pavarotti.

Andrea Sceresini

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Andrea Sceresini (Sondrio, 1983), journaliste freelance, travaille actuellement pour la chaine télé La7. Il est auteurs se plusieurs reportages de guerre pour les journal “La Stampa”, “Il Foglio”, “il Fatto Quotidiano” et “l’Espresso”. Il a gagné le prix “Igor Man” et “Ivan Bonfanti” pour ses correspondances de l’Ukraine. Pour la maison d’édition Chiarelettere, il a écris “La seconda vita di Majorana”, avec Giuseppe Borello et Lorenzo Giroffi (2016).