Cibo e credenze: i riti popolari, i miti, i simboli, le tradizioni tra folclore, sacro e profano.

«Credere nelle superstizioni è segno di ignoranza, ma non crederci, porta male».

Eduardo De Filippo

Siamo appena usciti da un mese di feste religiose dove il cibo è stato al centro dell’attenzione.
Mangiare non è solo questione di nutrimento, come del resto cucinare non è mai stato solo preparare delle ricette. I valori simbolici associati agli alimenti e al loro utilizzo, le ricette legate a figure religiose, le tradizioni e certe superstizioni che ne accompagnano la preparazione appartengono ad un universo affascinante, che ci riporta ad una società passata dove, spesso malgrado la carenza di mezzi, mangiare era un importante atto sociale, culturale e rituale, intimamente legato alle traiettorie cicliche delle stagioni e della vita degli uomini.
Il cibo è senza dubbio l’elemento religioso per eccellenza, religioso nel senso etimologico del termine, poiché collega diverse sfere e maniere di essere. Il legame tra il divino e il cibo è innegabile, quest’ultimo è considerato un dono di Dio ed è spesso invocato attraverso la preghiera. Molte abitudini alimentari delle società arcaiche, che ancora oggi portiamo con noi, hanno elementi simbolici strettamente legati alle credenze religiose. Ciò comportava spesso privazioni, digiuni e astinenze. Tutte le religioni hanno sempre sentito il bisogno di sviluppare delle regole alimentari, senza le quali il rapporto con la divinità era impossibile. Cibo e religione, infatti, in quanto espressioni di culture diverse, appaiono sempre accomunati dal gesto rituale più quotidiano: mangiare. La prova forte di tale sacralità è evidenziata nella tradizione cristiana, che fa del pane e del vino i simboli fondatori della propria fede.
L’Italia è una terra ricca di tradizioni e credenze popolari, dove il legame con il cibo e la cucina è forte e profondo. Non sorprende quindi trovare molti comportamenti, leggende e superstizioni legati alla tavola. Al di là dei gatti neri e degli specchi rotti, gli italiani hanno sempre dimostrato un particolare attaccamento ai precetti sacri, che si riferiscono agli ingredienti più comuni in cucina e ai comportamenti da seguire intorno a una preparazione.
E se il cibo è visto come un dono di Dio, per gli italiani è soprattutto un dono offerto grazie a entità protettrici, che si manifesta, in modo particolare, nella tradizione del culto dei santi. Una delle rappresentazioni più evidenti di questa cultura è la figura di San Giuseppe, citato nella Bibbia come marito e padre di famiglia, e che viene festeggiato in tutta Italia il 19 marzo con fritture dolci e salate: frittelle a Roma, zeppole a Napoli, sfinci a Palermo, crispelle a Catania, l’importante è friggere dei deliziosi bocconcini di pasta lievitata in olio o strutto. Questa data, inoltre, cade spesso nel periodo di Carnevale, quando si apprezza il lato più grasso e dolce del cibo. San Giuseppe è un santo molto amato anche in tutta la Sicilia e viene celebrato con riti strettamente legati al cibo. In suo onore, nel giorno della sua festa, si preparano le Cene di San Giuseppe, altari riccamente addobbati a forma di banchetti, con una tavola imbandita e una grande quantità di piatti tipici e, soprattutto, il pane di San Giuseppe, un pane di semola di grano duro e semi di finocchio, disponibile in varie forme molto elaborate.
In origine, questi rituali nascevano come riconoscenza per una grazia ricevuta, e la persona devota al santo si impegnava ad organizzare un banchetto di carità per i più poveri.
La regione napoletana è decisamente la culla del culto dei santi. Si celebra anche Sant’Antonino, l’abate patrono di Sorrento, autore di numerosi miracoli, tra cui il salvataggio di un bambino dallo stomaco di un cetaceo. In occasione della sua festa, il 14 febbraio, la penisola sorrentina prepara una torta che porta il suo nome, nota anche come pizza di crema, realizzata con una base di pasta frolla ripiena di crema pasticcera agli agrumi, cioccolato e amarene. Ma il primo posto, se così si può definire, spetta a San Gennaro, patrono di Napoli, al quale si attribuisce la liquefazione del proprio sangue conservato in ampolle. Il 19 settembre, anniversario del suo martirio, le suore Figlie della Carità, dedite all’assistenza dei malati, erano solite preparare per i pazienti dell’ospedale di San Gennaro dei Poveri, nel rione Sanità, una torta molto semplice e morbida, che tutti potevano mangiare, anche i più sofferenti. Si tratta del biscotto ova e limone, oggi riprodotto da un noto pasticcere napoletano, Leopoldo Infante, che dal 2016 lo propone nei suoi negozi con il nome di Gennarino.
La festa di San Giovanni Battista è legata all’arrivo dell’estate e sono molte le piante e i frutti di stagione legati a questo personaggio che conduceva una vita ascetica, si ritirava nel deserto e rispettava il digiuno. Mangiava come un nomade, spesso con cibi di fortuna che non richiedevano una particolare preparazione. Mangiava molte erbe selvatiche e cavallette. Per tutta una serie di superstizioni che nel corso dei secoli sono rimaste legate alla sua identità, cibi e piatti sono preparati per rendergli omaggio il 24 giugno, giorno della sua festa. La ruta, la verbena, l’aglio selvatico, la lavanda e il rosmarino sono erbe che vengono raccolte alla vigilia della festa nelle campagne di tutta Italia, nella convinzione che abbiano particolari proprietà benefiche se raccolte in quel periodo. Nel parmense, ad esempio, i Tortelli di San Giovanni sono tradizionalmente preparati con bietole ed erbe aromatiche raccolte al mattino presto perché si ritiene abbiano poteri magici, quando umide di rugiada. Un altro piatto tipico per celebrarlo sono le Lumache alla menta, tipiche del Lazio. Cibo contadino, un tempo piatto povero e cucinato in vari modi, le lumache sono associate alla festa di San Giovanni per vari motivi. Poiché vivono nell’umidità, sono anche legate alla rugiada, e la rugiada della notte di San Giovanni era considerata taumaturgica, in riferimento all’acqua usata per il battesimo.
Anche dopo la loro morte, i santi non hanno il tempo di riposare in pace. Oltre al loro ruolo di intercessione con Dio, le loro spoglie mortali sono spesso oggetto di cupidigia da parte dei fedeli. È il caso di Santa Lucia, nata a Siracusa, santa della luce e protettrice della vista. Le sue reliquie, attraverso i secoli, sono state trasportate in varie città italiane, da nord a sud, e per questo il suo culto si trova in luoghi lontani dalla Sicilia, probabilmente lì dove il suo passaggio ha alimentato numerose leggende locali, ricordate oggi attraverso le ricette. I puoti, biscotti tipici di Santa Lucia in tutto il Veneto, sono fatti di farina, burro, zucchero e uova. In dialetto veneziano « puoto » significa « bambola », che richiama la loro forma. In Puglia gli occhi di santa Lucia sono chiamati biscotti glassati e a Massaquano, un piccolo paese del napoletano, il 12 dicembre si gettano dal tetto della chiesetta a lei dedicata nocciole benedette che rappresentano le sue pupille. La leggenda narra che in tempi di carestia a Siracusa, Santa Lucia fece miracolosamente apparire battelli carichi di grano. Le persone affamate mangiavano i chicchi di grano dopo averli semplicemente bolliti, salvandosi così da una morte certa. Da allora, per ringraziare la santa, ogni 13 dicembre, presunto giorno della sua morte, i siciliani preparano un dolce a base di grano cotto chiamato cuccia, arricchito con cioccolato, ricotta di pecora e frutta candita. Nella città di Avellino, per gli stessi motivi, si cucinano i cicci, una zuppa a base di grano, ceci (che ricordano i suoi occhi), mais, fagioli e peperoni.
La storia di Santa Lucia è legata a quella di un’altra santa molto amata e venerata, Sant’Agata di Catania. Fu martirizzata nel 251, dopo indicibili torture. È patrona delle città di Palermo e Catania. A Catania, per la festa in onore della santa, il 5 febbraio, si preparano le minne di Sant’Agata o minnuzzi, dolci a forma di seno, in ricordo di quelli strappati alla martire. Si tratta di torte rotonde a base di pan di spagna, ripiene di ricotta e ricoperte da un sottile strato di marzapane glassato e bianchissimo, sormontato da una ciliegia rossa candita. Per la stessa occasione si preparano anche le olivette di Sant’Agata, piccoli bocconcini di pasta di mandorle a forma di oliva, che ricordano l’ulivo cresciuto improvvisamente proprio nel luogo in cui la santa si fermò ad annodare i lacci prima di andare al processo.
San Rocco, nato a Montpellier, ha trascorso tutta la vita in Italia ed è morto a Voghera. È parte integrante del patrimonio culturale e popolare italiano già dal Medioevo, da quando nella società rurale si è iniziato ad invocarlo per proteggere uomini ed animali dalla peste, dalle malattie gravi e dai terremoti. È il patrono delle professioni mediche, degli animali maltrattati e guaritore della peste. In occasione della sua festa il 16 agosto, a Maiano, nel napoletano, si preparano le polpette di san Rocco, fatte con carne di manzo, contengono molti ingredienti, come la frutta ma anche delle spezie e, talvolta, del cioccolato. Ogni famiglia le prepara a modo suo ed è fondamentale che abbiano un sapore leggermente dolce.
E a San Lorenzo si deve la leggendaria spaghettata di mezzanotte sotto le stelle cadenti nella notte del 10 agosto. Un’usanza molto antica e radicata che risale al 1337, quando a Firenze si iniziò a celebrare l’anniversario della morte del diacono Lorenzo, avvenuta a Roma il 10 agosto 258. Si cucinavano sottili sfoglie di pasta, tagliate a strisce larghe e ondulate, allora chiamate lasagne, oggi pappardelle. E la nascita dell’iconica bistecca alla fiorentina è attribuita a questa stessa festa, perché nella Firenze medievale era consuetudine arrostire due quarti di manzo sul fuoco e donarli ai poveri in onore di San Lorenzo. Finché i santi vegliano su di noi, avremo di che sfamarci!

LES RECETTES D’ALESSANDRA PIERINI

Zeppole napoletane di San Giuseppe

Pour 8 pièces

250 g d’eau

150 g de farine

80 g de beurre

20 g de sucre

3 œufs

1 cuillérée à c. de sel

Huile pour frire

Dans une casserole, verser l’eau, ajouter le beurre en morceaux, le sucre et le sel. Porter à ébullition puis ajouter la farine et mélanger à feu moyen de façon à obtenir une pâte homogène, souple et sans grumeaux qui se détache facilement des parois. Vider la pâte dans un saladier et, une fois tiédie, ajouter les œufs, un à la fois, pour bien les incorporer. On doit obtenir une pâte jaune et très souple. Déposer la pâte dans une poche avec une douille cannelée. Sur du papier cuisson, former, en gardant une certaine distance, des disques composés de 2-3 cercles concentriques de 10 cm de diamètre. Couper le papier en carré autour du disque. Chauffer l’huile une casserole à bords hauts ou une friteuse et y plonger 2 disques à la fois, la tête en bas. Attendre qu’ils gonflent et dorent puis les retourner et cuire l’autre côté. Il faudra environ un quart d’heure, les beignets restent à la surface et cuisent à feu modéré. Les déposer sur du papier absorbant pour qu’ils refroidissent. Les servir avec de la crème pâtissière sur le dessus, décorés d’une cerise griotte et saupoudrés de sucre glace.

Cicci di Santa Lucia

Pour 4 personnes

200 g de grains de blé

200 g de pois chiches

200 g de grains de maïs séchés

200 g de haricots secs (borlotti, cannellini…)

4 poivrons au vinaigre en conserve

2 gousses d’ail

Sel, huile d’olive

Faire tremper le blé et le maïs dans un bol d’eau pendant deux jours. Dans un autre bol, faire tremper les pois chiches et les haricots pendant 12h. Ensuite, cuire les légumineuses dans une casserole avec au moins 3 fois leur volume d’eau. Porter à ébullition sans couvrir et laisser cuire pendant 1h à 1h30 ou jusqu’ à ce qu’elles s’attendrissent. Ne pas saler. Faire la même chose pour les céréales et compter 1h30 à 2h de cuisson. Dans une grande marmite, faire revenir les gousses d’ail et les poivrons coupés en lanières avec de l’huile d’olive. Ensuite, égoutter les autres ingrédients et les verser dans la marmite avec un peu d’eau de cuisson. Continuer à faire cuire pendant 30 minutes à feu doux, il faut que le résultat soit crémeux. Saler et ajouter un filet d’huile d’olive avant de servir.

Olivette di Sant’Agata

Pour environ 25 olives

200 g de poudre d’amande

200 g de sucre glace

80 g d’eau

50 g de sucre semoule

1 cuillérée de rhum ou liqueur de votre choix

Quelques gouttes de colorant alimentaire vert

Dans une casserole porter à ébullition l’eau avec le sucre glace en mélangeant de temps en temps. Ensuite, baisser le feu, incorporer la poudre d’amande, le rhum et le colorant alimentaire, et cuire encore 5 à 6 minutes, le temps de former une pâte dense qui se détache facilement des bords de la casserole. Laisser un peu refroidir, malaxer l’appareil avec les mains comme une pâte à pain pour le rendre uniforme, détacher des petits bouts et former des petites olives. Rouler les olives dans le sucre semoule et les laisser reposer quelques heures avant de les déguster.

Polpette di San Rocco

Pour 15 boulettes environ

500 g de viande hachée de bœuf

50 g de pêche bien mûre

50 g de poire

50 g de biscuits secs

40 g de parmesan ou pecorino râpé

20 g de raisins secs et/ou fruits confits

20 g de pignons

1 œuf

1 échalote

1 cuillérée à c. de cannelle

1 cuillérée à c. de noix de muscade

Sel, poivre et huile d’olive

Déposer les raisins dans un bol d’eau pendant 1h pour les réhydrater. Couper la pêche et la poire et les ajouter à la viande ainsi que les épices et une pincée de sel et de poivre. Bien mélanger et incorporer au mélange les biscuits broyés, le parmesan et l’échalote finement hachée. Pour terminer, ajouter les raisins égouttés, les pignons et l’œuf. Travailler la pâte jusqu’à ce qu’elle soit homogène puis former des boulettes. Faire chauffer de l’huile d’olive dans une poêle et y frire les polpette qu’il faudra servir bien chaudes.

Superstitions Ou quand la chance vient en mangeant

Il est bien connu que les Italiens sont des gens superstitieux. Il est vrai que les croyances populaires sont enracinées dans tout le pays. Le lien culturel profond avec la nourriture a conduit les Italiens à créer une série de mythes et de légendes autour de la table. Qu’il s’agisse de bon augure ou de malchance, les ingrédients les plus courants sont au cœur de la plupart des convictions, des produits qui, selon les gestes et le mode d’utilisation, peuvent représenter un danger imminent ou le salut d’un destin cruel. Voici les croyances populaires italiennes les plus connues qui gravitent autour de certains ingrédients.

AIL

Tout Napolitain qui se respecte se souviendra sûrement de la formule pour chasser le mauvais œil, rigoureusement en dialecte napolitain, que Peppino De Filippo récitait à chaque fois qu’il incarnait le personnage de Pappagone : « Aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglia, corna, bicorna, capa r’alice e capa r’aglio ». Considéré depuis toujours comme l’antidote par excellence contre les vampires, l’ail est un symbole de bonne fortune et un excellent remède contre le mauvais œil. Et, si l’ail tout seul ne fonctionne pas, selon d’anciennes croyances napolitaines, également partagées avec l’Ombrie, les Marches et la Calabre, avaler un clou de girofle entier à jeun porterait chance.

HUILE D’OLIVE

L’un des produits autour desquels gravitent le plus de légendes : d’abord, s’il tombe, il faut jeter du sel dessus pour éviter tout malheur à venir. Comme dans le cas du sel, la raison de cette rumeur populaire est tout simplement à chercher dans la grande valeur que ces produits ont toujours revêtue : ingrédients précieux, indispensables pour la cuisine mais surtout pour la conservation des aliments, l’huile et le sel étaient des matières premières coûteuses à conserver avec soin, et les gaspiller était un signe de malchance. L’huile, cependant, a aussi une autre fonction : c’est, en effet, un support indispensable pour intercepter le malocchio (mauvais œil), l’une des croyances populaires les plus anciennes dans notre pays, selon laquelle le regard d’une personne peut avoir des effets négatifs sur un autre individu. Pour connaître les éventuels sortilèges, dans les villages du Sud, on utilise une assiette pleine d’eau et d’huile et, à partir de là, toutes les interprétations sont possibles !

LENTILLES

Incontournables le soir du Nouvel An, accompagnées de zampone ou de cotechino, les lentilles en Italie sont un porte-bonheur précieux, signe de gains à venir. Une coutume qui trouve ses racines dans la Rome antique, lorsqu’à l’arrivée de la nouvelle année, il était d’usage de faire don d’un sac en cuir – appelé scarsella – rempli de lentilles qui, selon le mythe, se seraient ensuite transformées en pièces de monnaie.

ŒUF

Emblème de renaissance, mais aussi de protection, qui a toujours été l’un des cadeaux les plus utilisés par les peuples anciens, l’œuf est synonyme de vie nouvelle : s’il y a deux jaunes dans une coquille, on dit qu’il y aura une prochaine naissance et, probablement, de jumeaux. Si vous mangez des œufs dans certaines régions d’Italie, on vous dira de broyer les coquilles : au début du XXe siècle, le pouvoir de faire du mal avec ces résidus était attribué aux sorcières.

OIGNON

Une ancienne coutume est celle de mettre un oignon sous le lit d’un malade, ou de l’accrocher dans la maison pour éviter l’entrée de germes ou d’éventuels maux. Il servait aussi à prendre des décisions importantes : chaque bulbe était associé à une option différente et, une fois planté, le premier à germer représentait le bon choix à faire.

PAIN

Un produit d’une valeur si inestimable qu’il fallait l’embrasser avant de le poser sur la table, au cas où il tomberait par terre. Il ne fallait surtout pas non plus servir le pain à l’envers, signe de mauvais augure. Cette ancienne rumeur remonte au XIXe siècle et elle est liée à la figure des bourreaux. Seuls et marginalisés par tous, ces personnages ne jouissaient pas d’une bonne réputation : ils devaient, en effet, subir diverses moqueries et harcèlements de la part du peuple. Parmi celles-ci, l’habitude des boulangers de leur tendre le pain à l’envers, en signe de mépris.

PIMENT

Véritable amulette contre le mauvais œil, mais aussi contre l’infidélité : autrefois, dans de nombreux villages, les époux qui soupçonnaient une trahison laissaient deux piments rouges sous l’oreiller de leur aimé/e. De cette façon, ils regagneraient son cœur.

RIZ

Il n’y a pas de mariage sans riz. Tout a commencé dans la Rome antique, lorsque des grains de blé étaient jetés sur les jeunes mariés en souhait de bonheur et de prospérité. L’une des hypothèses les plus accréditées affirme qu’une fois que le blé a commencé à manquer, il a été remplacé par du riz, moins cher et plus facilement disponible. Mais il y a aussi un conte chinois qui parle plutôt d’une divinité qui se serait privée de ses dents pour les planter dans le sol et sauver son peuple de la famine. Dans les champs, les plants de riz auraient prospéré pour représenter, à partir de ce moment, fertilité et nouvelle vie.

SEL

Si le sel tombe par terre, c’est signe de malchance. Il semble que Judas en ait renversé juste avant de trahir Jésus et que le remède consistant à le jeter derrière son épaule gauche symbolise la possibilité d’aveugler le diable et ainsi de se sauver du mauvais sort. Comme on le disait déjà de l’huile, il était considéré comme une denrée rare, à tel point que les soldats étaient payés avec cet ingrédient. Le mot même de « salaire » signifie en fait « ration de sel » et découle de cette habitude. Toujours utilisé pour conserver les aliments frais, il fait encore aujourd’hui partie des produits incontournables et, s’il devait tomber, pas de panique, il suffit d’en jeter trois poignées derrière soi pour chasser le mauvais sort.

VIN

Contrairement au sel et à l’huile, le vin qui tombe sur la table n’apporte pas de grands malheurs. En effet, si vous en prenez avec vos doigts et que vous le passez derrière vos oreilles, cela devient un signe de bon augure. Attention toutefois à le verser dans le bon sens, c’est-à-dire avec le dos de la main vers le haut. La raison de cette vieille croyance remonte au Moyen Âge, lorsque l’on versait du poison avec la boisson, généralement caché dans l’anneau de l’assassin. Ainsi, le geste élégant de servir l’invité pouvait se transformer en trahison et pour cette raison, aujourd’hui encore à Rome, le mauvais geste se dit en dialecte « alla traditora ».

Et encore. La pomme, grand sujet de discorde, ne doit pas être mangée à Noël. Une croyance conseille de ne pas débarrasser la table. Les restes serviraient de nourriture aux âmes des défunts : l’usage découle probablement du fait que dans l’Antiquité, des offrandes étaient déposées sur les tombes.

Pour terminer : savez-vous pourquoi on trinque avec des bulles ? La raison est encore une fois à rechercher dans les croyances populaires. Le secret réside dans le bruit que fait le bouchon de liège qui, semble-t-il, effrayait les mauvais esprits et libérait ainsi la maison des forces négatives. D’où les applaudissements ! Mais il y a aussi une deuxième raison : la couleur. Depuis l’Antiquité, les vins blancs, en effet, représentent l’élégance et la pureté. Sa sublimation en or avec des bulles est donc devenue un souhait de richesse pour ceux qui boivent. Allora, buon Prosecco a tutti !