In un’epoca in cui i muri tornano a crescere più veloci delle idee, in cui le guerre si moltiplicano e il linguaggio della paura sembra prevalere su quello del dialogo, c’è un luogo, piccolo, periferico, poco raccontato, che ha scelto una strada diversa. Gorizia e Nova Gorica hanno deciso di diventare una sola voce. Con la cultura come lingua comune. Nel 2025 sono insieme Capitale Europea della Cultura. E non è uno slogan. È una promessa. Un esperimento. Un azzardo. Ma anche una risposta.
Un tempo bastava una linea. Una sbarra, un timbro, due lingue divise dallo stesso silenzio. Oggi, tra Gorizia e Nova Gorica, quella linea è diventata una piazza. Letteralmente. La Piazza della Transalpina, un tempo confine, oggi è centro. Cuore simbolico e concreto di GO!2025. Un progetto unico: due città, due Paesi, una sola visione.
SARA VIDALI
Un sogno nato da due sponde
“Non volevamo solo organizzare eventi. Volevamo cambiare il modo in cui questa terra si percepisce e viene percepita”, racconta Rodolfo Ziberna, sindaco di Gorizia, tra i promotori della candidatura congiunta. Il suo omologo sloveno, Klemen Miklavič, ex sindaco di Nova Gorica, aveva usato parole simili al momento della vittoria ormai quasi un anno fa: “La nostra è una capitale che unisce, che attraversa i muri con la cultura”.
Un’utopia, forse. Ma necessaria. Perché in un’Europa attraversata da nuovi egoismi, il solo fatto che due città decidano di farsi spazio l’una nell’altra è già una forma di resistenza. E i muri, qui, non sono una metafora. Dopo il 1947, con il Trattato di Parigi, Gorizia fu letteralmente tagliata in due: l’Italia da una parte, la Jugoslavia di Tito dall’altra. Nova Gorica fu costruita dal nulla, come risposta politica ed esistenziale, una città nuova per accogliere i cittadini jugoslavi tagliati fuori. Una città pensata come simbolo di resistenza ideologica, costruita con urgenza e orgoglio. Da allora, ogni pietra, ogni strada, ogni albero piantato portava con sé un gesto di separazione. Famiglie divise, cimiteri smembrati, treni che non passavano più. E intanto la vita continuava, ma divisa in due. Come un cuore costretto a battere a metà.
Fino al 2004, quando, con l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea e poi nell’area Schengen, quel confine si è aperto, lentamente, tra diffidenza e festa. Ma la vera trasformazione è cominciata dopo: quando i cittadini hanno ricominciato ad attraversare la linea non per necessità, ma per desiderio – di conoscersi, di condividere, di sentirsi meno soli.
La candidatura di GO!2025, infatti, non è stata solo una questione di dossier o strategie culturali: è stata un esercizio di fiducia reciproca tra due città cresciute una contro l’altra. “Abbiamo dovuto imparare a raccontarci insieme”, dice Valentina Miorandi, curatrice di parte del programma artistico.
“E abbiamo cercato progetti che non si limitassero a decorare il confine, ma che lo attraversassero, lo interrogassero, lo riscrivessero. Insieme.”
Storie di confine, vite intrecciate
A Gorizia si parlano ogni giorno tre lingue, si incrociano due alfabeti e si celebrano memorie diverse dello stesso evento. Qui la storia non è mai alle spalle: cammina accanto, entra nei bar, si siede nei cortili.
“Mia nonna è nata in Italia, mia madre in Jugoslavia, io in Slovenia. Ma la casa è sempre la stessa”, racconta Maruša, 28 anni, barista e performer. Ride mentre lo dice, ma poi si fa seria: “Qui la memoria non è mai solo un ricordo. È un campo minato”. E anche chi nasce dopo la guerra, impara presto dove può mettere i piedi e dove no.
E in effetti, per decenni, lo è stata. Fino agli anni 1990, il confine era presidio militare, e passarlo non era un gesto banale. Servivano i documenti, i permessi, talvolta serviva anche fingere di non sapere che un parente stava a 400 metri, ma “dall’altra parte”. A Nova Gorica ci si affacciava dalle finestre delle case di confine. A Gorizia si costruivano muri con le panchine voltate. Eppure, la città continuava a essere una sola città separata due volte: dalla storia e dalla paura.
Silvano, ex doganiere oggi in pensione, lo ricorda bene: “Un metro più in là eri straniero. Avevamo ordini precisi. Una volta feci togliere un gelato a un bambino che lo aveva passato oltre la linea. Me lo sogno ancora, quel bambino”.
Oggi, in quel punto esatto, si svolgono festival, laboratori, danze collettive. Dove c’era la sbarra, ora si tengono concerti. Dove c’era il silenzio, si raccontano storie.
Ma le cicatrici non spariscono, e lo sanno bene gli organizzatori di GO!2025, che hanno voluto coinvolgere testimoni, archivi viventi, famiglie che hanno vissuto “entrambe le versioni della verità”.
Nel programma, accanto alle performance contemporanee, ci sono camminate storiche, mostre sulle migrazioni forzate, laboratori sul plurilinguismo. E il progetto più simbolico: una scuola elementare comune, con classi miste, per superare finalmente l’idea di “noi e loro”. Una scuola che non insegna solo grammatica, ma convivenza.
Perché la cultura, qui, non può essere neutra. Deve ricordare, curare, e poi osare.
La cultura può davvero unire?
Non tutti ci credono. Non tutti si fidano. A Gorizia e Nova Gorica, la cultura è da sempre un campo di battaglia mascherato da palcoscenico. Chi scrive libri, chi fa teatro, chi racconta la memoria, lo sa: ogni parola può accendere un fuoco. È sufficiente dire “esodo” o “foibe” senza contesto. È sufficiente nominare Tito, o il fascismo, o il 1947. E il tono della voce cambia. Le posizioni si irrigidiscono.
“Il rischio, quando si è capitale della cultura, è diventare una vetrina. Lucida, patinata, ma staccata dalla realtà”, avverte Lucia Kralj, storica dell’arte e attivista. “Siamo sicuri che tutti i cittadini si sentano coinvolti? Che non ci sia una cultura ‘per i turisti’ e una cultura che resta ai margini?”
E in effetti, il sospetto di “colonialismo culturale” non è mai scomparso del tutto. Da ambo le parti. Alcuni intellettuali sloveni parlano sottovoce di “egemonia italiana” nelle narrazioni ufficiali. Alcuni italiani temono che la memoria dell’esodo istriano venga diluita in un nuovo europeismo dimentico delle sofferenze.
È una tensione reale. Forse È il segno che qualcosa di vivo si sta muovendo. Perché la cultura che non dà fastidio non serve. La cultura vera mette in crisi, apre domande, toglie l’alibi della neutralità.
Lo sa bene anche Yusuf, 22 anni, rifugiato afghano arrivato a Gorizia due anni fa. Studia italiano, lavora saltuariamente, partecipa a un laboratorio teatrale finanziato da GO!2025. “Per me è importante. Qui non sono solo uno che ha attraversato il confine. Posso raccontare la mia storia e sentirmi parte della città.”
Proprio come lui, tanti nuovi abitanti (africani, arabi, sudamericani, ucraini) stanno riscrivendo la geografia sociale della zona. Portano lingue nuove, bisogni urgenti, identità non sempre accolte. Ma portano anche la possibilità di ridefinire cosa vuol dire “noi”, in una terra dove il “noi” è sempre stato in discussione. Un “noi” che non si costruisce eliminando le differenze, ma accettando di viverci accanto.
GO!2025, si è rivelato non solo un calendario di eventi, ma un laboratorio rischioso, in cui la cultura non ha il compito di addolcire, ma di scavare. E solo chi scava, può davvero ricostruire.
Una lezione che vale più di mille conferenze
In un mondo che si frammenta e si chiude, Gorizia e Nova Gorica hanno scelto il rischio dell’incontro. Non per cancellare il passato, ma per trasformarlo. E lo hanno fatto nel modo più coraggioso possibile: mettendosi in scena insieme, senza rete. La Piazza della Transalpina, dove un tempo si esibiva il potere della divisione, è oggi una soglia. Una linea che non separa, ma cuce. Qui, durante GO!2025, non si sono celebrati solo spettacoli, ma riti laici di riappropriazione collettiva: camminate notturne, tavolate miste, dove si mangia insieme senza più chiedere chi viene da dove.
È una piazza con due nomi, ma un solo respiro.
Eppure nessuno si illude. Il confine non è sparito: esiste ancora nei documenti, nelle lingue, nei riflessi della storia. È poroso, ma vivo. Ed è proprio questa la sua forza: non essere rimosso, ma affrontato. La memoria non si cancella con un festival. Si ascolta, si abita, si intreccia.
Certo, GO!2025 non risolverà le tensioni del mondo, né guarirà da sola tutte le ferite di Gorizia. Ma indica una direzione. Un modo nuovo di camminare insieme senza fingere di essere uguali.
Un gesto europeo nel senso più profondo: fare della pluralità una forma di coraggio, e della cultura un luogo di verità. Se c’è un messaggio che continua a partire da qui, da questa frontiera diventata piazza, è che nessun muro è più forte del desiderio di incontrarsi. E oggi, tra le macerie della storia e le ombre del presente, può bastare anche questo: un luogo che prova, davvero, a vivere al plurale.
E forse, per capire l’Europa che verrà, bisognerebbe partire da qui. O da luoghi simili, dove il confine ha smesso di essere solo una linea sulla mappa e ancora di più un luogo di conflitto.
S.V.








