Un viaggio tra le note e le parole di un poeta che, con delicatezza e forza, ha raccontato la vita, l’etica e la bellezza quotidiana, creando un legame indissolubile tra poesia e resistenza in un mondo che ha bisogno di silenzio e verità.

GUIDO FESTINESE

Esiste una musica odierna, ultraleggera, più dell’aria,
come i gas inerti coi quali si gonfiano palloncini. E poi esiste una musica che dà peso al vento e gli fa riempire le chiome degli alberi e delle donne. Gianmaria fa questa.
” Per quanto mi possa sforzare, non riesco a trovare una definizione migliore per cogliere quanto faceva con le note e con le parole Gianmaria Testa, lasciando a fluttuare nell’aria un senso di poesia profumata. La frase fa intuire, anche, il senso di aerea leggerezza che hanno quegli artisti che maneggiano temi cruciali, e non fanno avvertire la fatica che si è sostenuta, per raggiungerla. Sono parole di Erri De Luca, lo scrittore italiano grande amico di Gianmaria che conosce la precisione chirurgica e il peso specifico che hanno le parole. 

Un peso che Gianmaria Testa conosceva bene, lui sapeva che nulla è più vacuo e inutile che la dissipazione delle parole. Ha scritto in una delle poesie che ci ha lasciato, senza il conforto della musica, ma per fortuna racchiuse in un libro piccolo e prezioso, Da questa parte del mare, un libro che ha lo stesso titolo di un suo disco fondamentale: “Levigare le parole / fino alla trasparenza / fino al limite sottile / di fragilità e di rischio / per sentirle finalmente suonare / al tocco delle dita / o tagliarvisi le labbra / o raccoglierne i cocci muti / e riprovare”. 

Gianmaria, nella sua breve vita, neppure sessant’anni, tra il 1958 e il 2016, è stato un grande cantautore, un vero poeta, una persona coltissima, umile ed elegante che non si dava troppa importanza. Molto più conosciuto in Francia, Germania, Canada, Stati Uniti che in Italia. Di nuovo, serve Erri De Luca per inquadrare le moltitudini, per dirla con Walt Whitman, che Gianmaria conteneva dentro di sé: “Leggo la tua vita numerosa di altri, la tua scrittura a maglia di catena che li tiene assieme”. 

Viviamo in un mondo imbarbarito dove hanno fatto trionfare il becero contenitore “social” di un ego personale sempre più enfio, sempre più pubblico, e sempre più fragile e solo. Come la plastica sottile di un palloncino che inevitabilmente scoppierà, a forza di essere gonfiato. 

Gianmaria era una persona che, partito dal suo microcosmo piemontese, una terra selvatica che insegna a dosare le parole, prima di ogni cosa metteva la relazione con gli altri, il confronto fatto di parole pesate, non lo sgomitare per farsi notare. Il microcosmo diventava così un macrocosmo. 

Gianmaria Testa era un mio amico. Io vivo e sono nato a Genova, una città di mare aperta verso il Mediterraneo, però fatta da gente curiosamente simile a quei piemontesi che vivono a un tiro di dadi dalle Alpi che mettono in comunicazione Italia e Francia: gente che se può dice una sillaba in meno, non una in più. Dalla mia Liguria un tempo partivano i carri azzurri degli acciugai che raggiungevano le valli dove passava Gianmaria: era l’unico modo per portare il pesce di mare conservato sotto sale a quei montanari che non lo conoscevano fresco, se non dalle rade occasioni offerte dai torrenti o dai laghetti montani. Per secoli si sono incrociati caratteri simili, e dialetti ugualmente duri. 

Non ci abbiamo messo molto a diventare amici: io formalmente ero il giornalista che lo doveva intervistare, lui l’artista. Andava regolarmente a finire che invece di “realizzare l’intervista” finivamo a chiacchierare per ore di libri, di persone, di donne che ci stanno accanto e ci sopportano, di fatti della vita, consigliandoci a vicenda letture e musiche, scoprendo che avevamo orizzonti vasti di interessi comuni, e ognuno comunicava all’altro quanto aveva scoperto con un entusiasmo da adolescenti. 

Ricordo le gustose chiacchierate su Jean-Claude Izzo, su Erri, su Antonio Tabucchi, lubrificate da ottimi bicchieri del suo favorito vino bianco. Ricordo il conversare sul modo di toccare le corde acustiche con il plettro di Neil Young, su mille musiche e mille musicisti che ci stupivano e ci appassionavano. Poi arrivava il momento che Gianmaria era in ritardo per le prove di suono del concerto, e io non avevo registrato e appuntato nulla. Ci guardavamo, lui mi strizzava l’occhio sorridendo e mi diceva sempre: “Scrivi quello che vuoi, tanto va bene lo stesso”. 

Gianmaria era un uomo inflessibile sulle questioni etiche, quelle che richiedevano prese di posizione che non possono includere alcuna ipocrisia o fraintendimento: l’antifascismo nel DNA, l’avversione per il razzismo e gli intolleranti, il disprezzo civico per chi fa violenza all’ambiente e spreca risorse non infinite dell’unico pianeta che abbiamo, magari deridendo chi si sforza di guardare un po’ più in là del proprio naso.

Ed ancora: il rispetto per il lavoro, tutto il lavoro, soprattutto di chi fatica per una vita senza potersi concedere alcun lusso, alcun privilegio. Rispetto che arrivava da terre piemontesi contadine e partigiane, che hanno pagato un tributo di sangue e di sofferenza altissimo, ma secoli prima quelle stesse terre avevano dato rifugio agli ebrei in fuga, agli eretici perseguitati dall’Inquisizione, a chi aveva bisogno di cambiare vita scappando da realtà invivibili.  Esattamente come succede ora, peraltro, e Gianmaria tutto notava, tutto annotava, tutto lasciava maturare dentro di sé per poi cavarne canzoni o frasi che non potranno conoscere l’oblio del tempo, perché nascono già fatte di stoffa solida fatta per durare. 

Una volta, a un suo concerto, Gianmaria stava cantando Polvere di Gesso: è la più cruda e feroce canzone sulla solitudine che abbia mai ascoltato. C’era con lui sul palco il favoloso clarinettista jazz Gabriele Mirabassi. Quando Mirabassi ha iniziato lo straziato, lacerante assolo che sempre posava in mezzo alla canzone, ho scoperto che aveva gli occhi inondati di lacrime, e il trasporto era stato tale che, suonando, aveva travolto e fatto volare via una sedia. Questa era la forza che Testa trasmetteva con le sue canzoni. 

Gianmaria portava nella sua musica tutto questo, e la meraviglia assoluta era che riuscisse ad essere un perfetto narratore di storie di dignità e di resistenza pure e nude, e assieme un poeta di una delicatezza estrema, come i filamenti di una tela di ragno, ogni volta che invece decideva di scrivere d’amicizia, d’amore, di sentimenti espressi con parole calibrate e asciutte. Con la grazia sottile che hanno pochi. Se non lo avete mai fatto, o se è da tempo che non lo fate, andate ad ascoltare o riascoltare Montgolfières, 1995 Altre latitudini, 2003, Da questa parte del mare, 2006, Solo dal vivo, 2008, Prezioso, 2019. 

Come m’è capitato spesso di dire, Gianmaria Testa è un’àncora e un ancòra: un puntello, e anche una sonda di bellezza e di radici lanciata verso il futuro.

G.F.