ROCCO FEMIA

Hanno detto di tutto su di loro. Che erano apatici, che non leggevano, che non pensavano, che non sapevano più indignarsi. E invece li abbiamo visti. In milioni in Italia in più di 144 città, all’inizio dello scorso ottobre. Scendere in piazza per dire basta alla guerra, all’ipocrisia, al silenzio. Per dire, con la forza tranquilla di chi non ha ancora ceduto al cinismo, che la pace non è un sogno, ma una responsabilità collettiva.

C’erano ragazze e ragazzi delle scuole, studenti universitari, insegnanti, famiglie, credenti e non credenti, musulmani ed ebrei, insieme. L’Italia ha dato una scossa che va salutata con rispetto e fierezza.

E soprattutto non erano manipolati, né manovrati, né “sdraiati”, come li ha definiti una certa politica abituata a confondere la coscienza con il fastidio.

E invece sì, fanno paura.

Perché hanno rimesso in moto ciò che la politica, quella vera, ha smesso di fare da tempo: ascoltare, immaginare, dissentire.

E non è un caso se, proprio nelle stesse settimane, una flottiglia di navi piccole e grandi, la Global Sumud Flotilla, è salpata da vari Paesi per tentare di raggiungere Gaza.

Quel gesto, nato dal mare, ha trovato eco nelle piazze di terra. Non solo per il suo obiettivo umanitario, ma per il suo significato profondo: raccontare che la società civile, nel mondo intero, non ha rinunciato a sperare. È come se quelle imbarcazioni, cariche di aiuti ma anche di simboli, avessero smosso il linguaggio stesso con cui parliamo di guerra, di pace, di responsabilità.
Hanno aperto un varco nel nostro quotidiano torpore, ricordandoci che la speranza non è un sentimento passivo ma un atto collettivo.

Negli ultimi anni ci siamo abituati a pensare che l’indignazione non serva, che la complessità sia una scusa per non agire. Ora invece la frattura è visibile: da un lato la paura, alimentata da chi governa nel nome dell’ordine e del sospetto; dall’altro la società civile che torna a immaginare, a discutere, a muoversi.

E mentre la politica rincorre, il Paese reale si interroga: non più “che cosa farà la politica?”, ma “che cosa possiamo fare noi?”.

La speranza è già partita, senza aspettare il via libera delle istituzioni.

Non chiedono il potere, chiedono solo che il potere torni umano.

Che chi governa non derida più chi chiede pace.

Che nessuno osi ridurre la voce di milioni di giovani e di lavoratori a un “weekend lungo”, come ha fatto Giorgia Meloni, scambiando l’impegno per vacanza, la dignità per noia.

Per anni li abbiamo raccontati come una generazione perduta nei social, anestetizzata dalle paure degli adulti. Ma questa volta non hanno taciuto.

Hanno scelto la piazza invece dello schermo, la parola invece dell’algoritmo.
E in quelle piazze hanno gridato, anche per noi, che ogni bomba su Gaza lacera il cuore del mondo, e che anche in Israele la paura e il dolore non possono mai giustificare l’annientamento di un popolo.

C’è una bellezza potente in questo risveglio. Non è solo quella dell’età o dell’entusiasmo. È la bellezza della verità che rompe la paura, della vita che si ribella alla rassegnazione.

E se la politica ha ancora un futuro, dovrà ripartire da qui: dal coraggio di questi giovani che non si fanno più zittire.

R.F.

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Rocco Femia, éditeur et journaliste, a fait des études de droit en Italie puis s’est installé en France où il vit depuis 30 ans.
En 2002 a fondé le magazine RADICI qui continue de diriger.
Il a à son actif plusieurs publications et de nombreuses collaborations avec des journaux italiens et français.
Livres écrits : A cœur ouvert (1994 Nouvelle Cité éditions) Cette Italie qui m'en chante (collectif - 2005 EDITALIE ) Au cœur des racines et des hommes (collectif - 2007 EDITALIE). ITALIENS 150 ans d'émigration en France et ailleurs - 2011 EDITALIE). ITALIENS, quand les émigrés c'était nous (collectif 2013 - Mediabook livre+CD).
Il est aussi producteur de nombreux spectacles de musiques et de théâtre.