Era l’11 gennaio del 1999, e ci lasciava Fabrizio De André il poeta-cantante della storia musicale italiana. Era nato a Genova che non ha mai tradito, molte delle sue canzoni sono addirittura in genovese. Ma è pur vero che è impensabile considerare la sua opera senza la Sardegna e la sua radicale scelta di “fuggire” nell’isola per inventarsi una nuova esistenza.
In Sardegna vivrà una tappa essenziale della sua vita: il rapimento insieme alla sua compagna Dori Ghezzi. Un evento che avrebbe potuto segnare la fine e invece rappresentò la conferma che quella terra era diventata davvero la sua terra e che i mali di quella terra erano anche i suoi. Al termine di quei quattro mesi di detenzione, De André, facendo prova di una pietas d’altri tempi disse: “Io ne sono uscito, mentre i miei carcerieri non ne usciranno mai”. Ne parlerà nella canzone Canto del servo pastore del 1981. Tra i canti dedicati alla Sardegna anche Hotel Supramonte, Ave Maria (un canto tradizionale rielaborato da un adattamento di Albino Puddu). Quanto a Genova, basta ricordare Creuza de mä, oppure La Città vecchia, La canzone di Marinella, Bocca di rosa, e infine il suo accorato gesto d’amore alla città natale in queste brevi parole: “Genova per me è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Oggi a me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei suoi carruggi, gli esclusi che avrei poi ritrovato in Sardegna, le graziose di via del Campo. I fiori che sbocciano dal letame. I senzadio per i quali chissà che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso, sempre pronto a accoglierli”.