Matrimoni civili, religiosi e unioni di fatto: come e perché si è trasformata in un secolo e mezzo la famiglia, che in Italia aveva l’aria di essere immutabile.

GIULIANA ROTONDI / FS 

Sulmona (L’Aquila), Natale 1992: una famiglia è seduta intorno alla tavola. A un capo, una donna con una pentola di pasta al sugo, all’estremo opposto suo marito. Sullo sfondo la tv accesa, sintonizzata su Rai Uno. Prima canta Jovanotti « E allora, muoviti muoviti » poi Loredana Berté. Attorno alla tavolata figli, nuore, generi e nipoti. È una delle scene clou di Parenti serpenti, film di Mario Monicelli, il regista che meglio di altri ha saputo cogliere i mutamenti del carattere italiano. Una metafora della crisi della famiglia, secondo molti vampirizzata dai valori imposti dal mezzo televisivo. Quella cena dal sapore antico, quasi patriarcale, termina infatti con un doppio omicidio, programmato dai figli per non prendersi cura dei genitori anziani. 

Sono passati più di 30 anni e viene spontanea una domanda. Ma a che punto è la famiglia “tradizionale” italiana? È morta o è drasticamente cambiata? Difficile dirlo, anche se negli ultimi 50 anni i mutamenti sono stati davvero epocali. 

PATRIARCHI

Bisogna dire che il modello patriarcale, dominante per secoli (soprattutto per ragioni ereditarie) nel nostro Paese, entrò in crisi nel corso dell’800 sulla spinta della rivoluzione industriale. Una crisi che trascinò con sé un sistema di valori secolari: in primis il ruolo del pater familias, padre e padrone che organizzava l’intera vita del « casato », come si chiamava la famiglia all’epoca. Casato che, si badi bene, non era solo il nucleo composto da marito, moglie e figli, ma anche fratelli, nonni, cugini e in alcuni casi gli amministratori dei terreni della famiglia che si chiamavano comunemente mezzadri. Un clan insomma, il cui potere si rifletteva sull’intera comunità, e che era sostegno e specchio di quel tipo di famiglia. 

All’inizio del XX° secolo l’economia agricola dettava i valori della famiglia italiana: intanto lo spirito religioso, poi la vocazione al sacrificio, l’attaccamento al lavoro e il legame con la comunità locale. È la società descritta, giusto per creare un ‘immagine, nel film L’Albero degli zoccoli, film del 1978 di Ermanno Olmi, uno spaccato di vita in una cascina bergamasca tra l’autunno 1897 e la primavera 1898. Ma ricorda anche la realtà descritta negli stessi anni dal siciliano Giovanni Verga nel suo libro I Malavoglia, storia di una famiglia patriarcale di Acitrezza (Catania, Sicilia), quella di padron ‘Ntoni. Quella dei I Malavoglia è la storia di uno dei primi conflitti generazionali italiani. Vi consigliamo la lettura di questo libro dove il ventenne protagonista un po’ troppo vagabondo e fannullone per il nonno, che non perdeva occasione di dargli qualche schiaffo e qualche pedata sul culo per rimettere l’equilibrio, quando lo schiaffo era stato troppo forte. Erano gli anni, per intenderci, in cui i figli davano del voi ai genitori. In cui i fidanzati si incontravano solo alla presenza dei parenti. In cui durante la prima notte di nozze la suocera entrava nella camera nuziale per spegnere la luce. In cui i matrimoni erano combinati spesso dalla famiglia, solitamente in base ai possedimenti terrieri. In cui la famiglia era stabile, sì, ma raramente un luogo di libertà. 

FAMIGLIE NUCLEARI

In Italia all’inizio del XX° secolo dominava ancora il sistema patriarcale che oggi è messo decisamente in discussione. E meno male. Molte famiglie povere, come quelle dei braccianti, anziché vivere in sistemi « complessi » e allargati si organizzavano in nuclei (marito, moglie e figli). Ma l’economia italiana ancora agricola e il livello di istruzione tra i più bassi in Europa mantennero a lungo il numero di figli per famiglia elevatissimo, la mobilità sociale, cioè il passaggio di un individuo o di un gruppo da uno status sociale ad un altro, era scarsissima e la povertà persistente. Le cose non migliorarono nemmeno con il fascismo: il progetto totalitario del Duce avrebbe dovuto fare della famiglia la garanzia di stabilità sociale, fulcro vitale della società. Lo scopo della propaganda, spiegano gli storici, era replicare nelle case la struttura autoritaria della società. A guardare certe prese di posizione della politica di oggi, sembra di ritornare il quel nero passato. 

Durante il fascismo, infatti, la moglie abdicò alla sua dimensione di donna, identificandosi esclusivamente in quella di madre: era lei la responsabile della salute, della conservazione della “razza” e quindi della crescita demografica del Paese. Ed era sempre lei a custodire la morale fascista e a trasmetterla alla prole. Non a caso Mussolini istituì nel 1925 l’Opera nazionale maternità e infanzia, un ente assistenziale rivolto a madri e bambini in difficoltà. Si dovettero aspettare gli anni 1950 perché il sistema di valori tradizionale cambiasse. Solo con la fine della guerra e con la promulgazione della Costituzione repubblicana la famiglia si trasformò. Unendo culture diverse, liberali, cattoliche e marxiste il nuovo Stato indicò un modello di famiglia che pur rimanendo nucleo costitutivo della società, come chiedeva la corrente cattolica, introdusse il concetto fondamentale della parità dei sessi fino ad allora sconosciuto. Era la fine (almeno sulla carta) di una cultura sintetizzata dal detto che i Veneti conoscono bene: « che [la donna, ndr] la piasa, la tasa, che la staga a casa » (che piaccia, che taccia, che stia a casa)

LA RIVOLUZIONI DI COPPIA

Nel 1949, quattro anni dopo la fine della guerra, un altro film portò sugli schermi di un Paese impegnato nella ricostruzione, una donna nuova, simboleggiata dall’attrice Silvana Mangano. Nel film Riso amaro, del regista Giuseppe De Santis, la sensuale attrice romana ballava un boogie-woogie importato dai soldati americani durante l’avanzata del 1944-45. Divenne il simbolo di una svolta che avrebbe cambiato la coppia, e quindi la famiglia italiana. Ma ci voleva ancora del tempo. A metà degli anni 1950, due giovani sono intervistati dal settimanale Grazia. Nelle parole della ragazza fidanzata c’è il ritratto di un’epoca: « Siamo due quasi fidanzati, innamorati e tentati reciprocamente: io mi controllo e resisto, ma lui afferma che non c’è nulla di male visto che ci sposeremo e così vuol correre« . E si, proprio il riflesso di un’epoca lontanissima. La risposta che diede il giornale, infatti, non lascia spazio a equivoci: « Correte pure, ma che la prima tappa sia l’altare« . Era così. Il settimanale Noi donne alcuni anni dopo nel 1959, riportò l’intervento di una ragazza che diceva di aver conosciuto nella sua zona « molte giovani coppie di sposi americani: sono quasi tutti studenti in medicina. Ebbene, queste spose mi dicono che lo studente americano aiuta la moglie a rigovernare la cucina, a lavare i pavimenti, accudisce il bambino e può succedere persino che lei stia seduta ad ascoltare la radio o a leggere mentre il marito gira per casa cullando il fantolino o pulendolo« . Una situazione del genere era impossibile immaginarla nell’Italia dell’epoca. Non passeranno più di quattro anni che la cantante Mina farà scandalo mettendo al mondo un figlio avuto da una relazione illegittima. Anche questa parola “illegittima” è la perfetta sintesi di quei tempi dove i sentimenti erano rilegati in un ristretto ambito in cui la libertà era sconosciuta. « Sarebbe stato semplice rinunciare a un figlio » dirà Mina. « Ma io voglio questa creatura e la voglio con tutte le forze perché è il figlio dell’uomo che amo« . 

ALTARE O MUNICIPIO? 

La vicenda delle famiglie italiane è però segnata storicamente, ed in maniera forte, dall’influenza culturale della Chiesa. Negli anni 1950 e 1660, di fronte alla rivoluzione famigliare la Chiesa difese il matrimonio lanciando condanne e anatemi contro un nemico preciso: i matrimoni civili, che nel 1958 erano circa 6 mila all’anno su circa 370 mila (nel 2009 sono stati 86.475 su 230.859, nel 2021 addirittura 180.416 matrimoni civili, mentre nel 2022 sono stati celebrati 189.140 matrimoni civili, il 4,8% in più rispetto al 2021). Furono molti gli intellettuali che negli anni 1960, si chiedevano se l’Italia era pronta a questa trasformazione. In fondo, la famiglia allargata continuava a prevalere in molte regioni, e non solo al centro-sud dov’era ancora dominante. Lo stesso Pier Paolo Pasolini, nel video-inchiesta Comizi d’amore, nel 1965 colse il passaggio da una cultura e una morale (anche sessuale) contadina a nuovi modelli, in gran parte imposti dalla televisione. Intravedendo il conflitto generazionale che tre anni dopo, nel 1968, sarebbe esploso proprio a cominciare dal contrasto padri-figli. 

GENERAZIONE CONTRO

La famiglia nucleare borghese, per i figli nati nel Dopoguerra, divenne, appunto, nel 1968 sinonimo di cultura reazionaria e « clerico-fascista ». Al grido di « abbattiamo i padri » i figli contestavano qualsiasi principio di autorità. Mentre le giovani donne scoprivano la liberazione sessuale e una presa di coscienza del proprio corpo e dei propri diritti, anche tra le mura di casa. Si sperimentarono sistemi educativi libertari, dal metodo Montessori alle scuole steineriane che anche se erano nati all’inizio del ventesimo secolo, erano fin ad allora poco sviluppati sul territorio italiano. Fecero il loro esordio movimenti contro le discriminazioni in base al sesso. Oltre al femminismo, nasceva allora il movimento di liberazione omosessuale. Erano i tempi dei movimenti contro le discriminazioni di razza anche se le coppie miste rimasero una rarità, mentre oggi sono il 15,6% delle unioni matrimoniali. I matrimoni misti (in cui uno sposo è italiano e l’altro straniero) ammontano a oltre 20 mila nel 2022. 

La famiglia, in pratica, ha smesso di essere un modello unico. Sono debuttate le unioni omosessuali e comuni che, se non si definivano « famiglie », ne rappresentavano tuttavia il cambiamento. Ai mutamenti del costume, come succede spesso, segue la legge: nel 1970 entra in vigore la legge sul divorzio, confermata nel 1974 da un referendum; nel 1978 arriva la legge che depenalizza l’aborto e, tre anni prima, il diritto di famiglia italiano sancì che marito e moglie avevano la stessa responsabilità verso i figli. E si, fino a quel momento era il padre che decideva tutto. Il 5 settembre 1981 fu la volta dell’abrogazione del delitto d’onore e quindi del matrimonio riparatore. Fino ad allora la legge considerava la donna proprietà dell’uomo, priva di qualsiasi volontà e libertà di scelta. E prevedeva pene irrisorie per i delitti d’onore perché la violenza sessuale era considerata un reato contro la morale e non contro la persona.

NUOVE FRONTIERE

Il progresso e l’allungarsi della durata della vita contribuiscono a creare nuovi equilibri. Oggi le madri lavorano di più per rispondere a costi della vita più elevati e i nonni, più aggiornati che in passato, suppliscono con la loro presenza alle carenze dei genitori in materia di educazione dei figli/nipoti. Il divorzio, poi, autorizzò separazioni un tempo condannate dalla morale comune ed è ormai normale conoscere bambini con due papà o due mamme, uno naturale e uno acquisito. Se di famiglie si continua a parlare, dunque, si tratta sempre più spesso di famiglie “atipiche”. Già a partire dall’Annuario statistico del 2010 il 22% delle nascite avveniva al di fuori del matrimonio: i figli delle cosiddette coppie di fatto. Ci sono poi le frontiere etiche aperte dalla fecondazione eterologa (cioè con seme di donatori esterni alla coppia) e l’annosa questione delle coppie omosessuali che in Italia non sono ancora riusciti a veder rispettato il diritto a definirsi una famiglia, come avviene altrove. Dal versante della Chiesa e del Vaticano seppur sempre con spinte negative, si intravvedono negli ultimi anni cambiamenti che autorizzano a sperare. 

G.R.