Altro che sostituzione etnica: come ha detto un ministro dell’attuale governo Meloni: gli stranieri non stanno affatto sostituendosi con gli italiani. Non ne prendono il posto. Al contrario, senza di loro, l’Italia sarebbe più povera, più indebitata, ancora più anziana di quanto non lo sia oggi. E non sapremmo come pagare le pensioni. Ecco, senza troppi giri di parole, tutti i numeri reali che lo dimostrano ed ecco perché serve una nuova legge sulla cittadinanza.

Dossier a cura della redazione

Un film uscito in Italia nel 2011 spiegava bene già all’epoca l’assurdo immaginario di cui è abitata la mente di molti italiani. È una commedia, anche a tratti drôlement tragique, dal titolo « Cose dell’altro mondo« , di Franceso Patierno. Il film immaginava in maniera intelligente i possibili effetti, in un’economia globalizzata, della scomparsa di colpo in Italia di tutti gli immigrati. Il protagonista era un veneto, un tipico uomo del posto sulla cinquantina. Dirigente d’azienda, che non fa altro che rimproverare i suoi dipendenti, immigrati e meridionali, così come la moglie il suo personale domestico. Ogni giorno appare su un canale televisivo locale, dove arringa la popolazione con luoghi comuni e slogan razzisti. Il suo programma è molto seguito e la sua retorica colpisce persino i bambini di una classe in cui i piccoli italiani nutrono i peggiori pregiudizi nei confronti dei compagni immigrati. 

Chissà se anche a noi è capitato di voler fare a meno degli immigrati e di desiderare di vederli sparire dall’oggi al domani? Di fronte ad un tale evento, una buona parte delle famiglie italiane, compresa quella del film, si troverebbero sottosopra mancando di domestiche e assistenti di vita per gli anziani, nelle fabbriche ormai quasi deserte e in piena crisi rimarrebbero solo operai italiani, i bar e i ristoranti costretti a chiudere per l’assenza di personale. Insomma, morale della favola: senza gli immigrati è il KO finale. Ci servono come il pane per non dire come l’aria che respiriamo. Quando il film uscì la Lega Nord lo contrastò subito, fin dall’inizio. Addirittura il sindaco leghista di Treviso impedì lo svolgimento delle riprese in città e un deputato, sempre della Lega presentò un’interrogazione parlamentare sul finanziamento concesso alla pellicola dal Ministero dei Beni culturali. 

Sono passati dodici anni ed è come se fosse ieri. Il dibattito pubblico in Italia è ancora fermo li, tra chi vuole farla finita con gli immigrati e chi allerta sulla necessità di non chiudere le porte. Le provocazioni sono legione, dal “prima gli italiani” alla provocatoria frase di chi ha paura di ritrovarsi « un’Italia senza italiani », piena zeppa di donne col velo islamico e uomini di etnia africana, mediorientale e indiana. 

Non c’è dubbio che la cattiva gestione dei flussi migratori abbia contribuito in questi anni ad accrescere le tensioni nella nostra società, una società stanca delle varie crisi economiche e delle disuguaglianze crescenti. Così come non si può negare, senza essere ipocriti, che la criminalità può contare su molti immigrati fra le proprie fila (nelle carceri italiane un detenuto su tre è straniero). Ma è altrettanto vero che identificare lo straniero come portatore di degrado e delinquenza è semplicemente una sciocchezza sesquipedale. Non lo suggeriscono ragionamenti etici da anime belle o ancora meno una diversa sensibilità ideologica o partitica. Lo dicono i numeri, quelli che interessano non la pancia dei cittadini, ma il loro portafoglio che in questo caso ha il privilegio e il vantaggio di attirare l’attenzione e di essere capiti da tutti. 

Allora vediamoli questi numeri. Quelli relativi all’impatto dell’immigrazione sull’economia italiana certificano un dato inattaccabile: oggi l’Italia non può fare a meno degli immigrati. Se all’improvviso, come nel film, sparissero tutti gli stranieri, il Paese si scoprirebbe più anziano, più povero e lo Stato rischierebbe di non poter pagare la pensione a chi ne ha diritto. 

Gli immigrati generano il 9% del Pil. Versano contributi per 15,9 miliardi €. Producono il 5% di imposta sul reddito delle persone fisiche

E arginano il nostro declino demografico

Secondo i dati dell’Istat aggiornati al primo gennaio 2022, gli stranieri residenti in Italia sono poco meno di 5,2 milioni, pari all’8,8% della popolazione. Due terzi vivono al Nord: a Milano, Torino e Bologna sono circa il 15% degli abitanti, mentre a Napoli, Bari e Palermo si oscilla intorno al 4%. I principali Paesi di provenienza sono, nell’ordine: Romania, Marocco, Albania, Cina e Ucraina. Qui ovviamente stiamo parlando di immigrati regolari. Ai quali vanno aggiunte alcune decine di migliaia di richiedenti asilo. Nel corso del 2022 sono state presentate 77mila domande. Per dare un’idea della proporzione, basta sapere che in Francia sono state quasi il doppio, in Germania quasi il triplo, in Spagna 116mila. Poi ci sono gli immigrati clandestini, quelli che sfuggono alle statistiche ufficiali. La Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità), una delle più autorevoli fonti in materia, stima siano 519mila. 

Gli immigrati regolari che vivono nella Penisola hanno un’età media nettamente più bassa rispetto agli italiani autoctoni: 35,1 anni contro 46,7. Essendo più giovani, hanno anche un tasso di mortalità inferiore, pari al 2 per mille, contro una media nazionale del 12. Non solo: fanno pure molti più figli: 11 all’anno ogni mille abitanti, a fronte di una media nazionale che non arriva a 7. Nelle nostre scuole le studentesse e gli studenti che non hanno la cittadinanza italiana sono 877 mila (il 10,3% del totale), mentre i minorenni stranieri residenti nel nostro Paese sono 1,3 milioni, vale a dire il 13% della popolazione under 18. Ragazze e ragazzi che, pur essendo spesso nati in Italia, si vedono negata la cittadinanza. Queste cifre dimostrano che gli immigrati stanno attenuando gli effetti del declino demografico che attraversa l’Italia, dove da ormai quindici anni calano costantemente le nascite e aumentano i decessi. Ma il ritmo di crescita della popolazione straniera sta rallentando fortemente (dal 20,9 per mille del 2006 al 9,2 del 2021). Al punto che nell’ultimo Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione realizzato dalla Fondazione L. Moressa si legge che «la presenza di stranieri sul territorio nazionale, che nei primi anni del millennio rappresentava una risorsa per bilanciare il calo demografico, ora non è più sufficiente». Quindi ne servirebbero di più, almeno finché le politiche per incentivare la natalità fra gli italiani, come reclamano alcuni, non avranno dato frutti concreti. Nell’attesa la situazione è chiara, senza l’apporto degli immigrati anche il nostro sistema pensionistico rischierebbe il collasso. 

A destra si obietta: non bisogna puntare sull’immigrazione, ma su politiche di incentivo alla natalità. Intanto è un errore contrapporre le due cose e l’una non esclude l’altra. 

Quello che sappiamo è che gli immigrati impegnati nei servizi di supporto alle persone alleggeriscono da tempo gli italiani, soprattutto le donne, dagli oneri di cura familiare e permettono a loro di lavorare maggiormente in altri settori e fare figli. Detto in parole povere, gli immigrati contribuiscono ad aumentare la natalità degli stessi italiani. E poi gli stranieri che arrivano da fuori sono disponibili fin da subito a entrare nel mercato del lavoro. E poi non dimentichiamo che anche se riuscissimo ad attuare politiche per la natalità efficaci, ci vorrebbero almeno altri vent’anni per vederne i frutti, per permettere ai nuovi nati di entrare nel mercato del lavoro. 

Un esempio lampante che mostra bene quanto l’Italia abbia, nei fatti, bisogno degli immigrati lo si è avuto in occasione delle domande di ingresso di lavoratori stranieri per motivi di lavoro subordinato e stagionale. Nel 2022 il Ministero degli Interni italiano mise a disposizione per i lavoratori extracomunitari 82.700 posti di lavoro. Solo che le richieste arrivate dai datori di lavoro superarono le 252mila, più del triplo. Questo fatto la dice lunga su chi vuole meno extracomunitari e più italiani. Nel nostro Paese ci sono 3,4 milioni di lavoratori immigrati regolari (il dato più aggiornato che abbiamo è relativo al 2021), di questi 2,9 milioni sono dipendenti del settore privato. Il tasso di occupazione dei lavoratori immigrati è in linea con quello degli italiani. I mestieri più comuni sono muratore e operaio per gli uomini, badante e addetta alle pulizie per le donne. In certi settori, come l’edilizia, l’agricoltura e la ristorazione, quasi un addetto su cinque è straniero, mentre vengono dall’estero addirittura due collaboratrici domestiche su tre. Ciò significa che senza immigrati si fermerebbero molti cantieri, chiuderebbero migliaia di ristoranti e alberghi, la filiera agroalimentare andrebbe in tilt e non sapremmo come fornire assistenza agli anziani. Quelli che si riempiono la bocca sulle eccellenze italiane, il famoso “Made in Italy”, dovrebbero sapere che per sostenere questo Made in Italy tanto caro ai “patrioti italiani” abbiamo bisogno di più manodopera straniera. Il presidente di Confindustria Lombardia afferma: “Oggi in alcune funzioni, specialmente nella raccolta di ortofrutta, gli immigrati arrivano a rappresentare il 30% della forza lavoro. E tuttavia riscontriamo difficoltà a trovare manodopera. Ne servirebbe di più”. 

Secondo l’ultima edizione del Dossier statistico sull’immigrazione, curato dal Centro Studi Idos, emerge un dato interessante: un terzo dei lavoratori stranieri possiede un titolo di formazione più alto rispetto alle mansioni che realmente ricopre sul mercato del lavoro italiano. Inoltre un occupato immigrato su tre rientra nella categoria dei rapporti di lavoro precari, a termine e part-time. Per non parlare del fatto che in Italia si contano anche circa 600mila imprese a guida straniera. Negli ultimi dieci anni, mentre gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti dell’8,6%, quelli provenienti dall’estero sono aumentati del 31,6%, arrivando a rappresentare ormai un decimo del totale degli imprenditori attivi in Italia. Un fenomeno che ha le sue luci e le sue ombre. Se da un lato, infatti, l’aumento dell’imprenditoria rappresenta la continuazione di un percorso di integrazione, dall’altro in molti casi le nuove imprese a conduzione straniera si collocano in segmenti del mercato a bassa produttività e basso valore. 

Le persone nate all’estero che pagano le tasse perché residenti in Italia sono 4,17 milioni. Nel 2021 hanno dichiarato redditi per 57,5 miliardi di euro e hanno pagato 8,2 miliardi di euro di Irpef, pari al 5% delle entrate totali per lo Stato derivanti dall’imposta. Non solo, hanno versato contributi per 15,9 miliardi di euro, ricevendo in cambio poco più della metà, 8,4 miliardi di euro, sotto forma di pensioni e aiuti di disoccupazione. Il loro impatto sul Pil è stato quantificato in 144 miliardi di euro, pari al 9% del Prodotto interno lordo nazionale. Una cosa che nessuno dice ma che lo stesso Governo di centrodestra, ha inserito nell’ultimo Documento di Economia e Finanza, quindi scritto nero su bianco, è che se l’immigrazione netta aumenterà del 33% nei prossimi cinquant’anni il debito pubblico dell’Italia diminuirà di oltre venti punti, mentre se l’immigrazione diminuirà del 33% il debito si alzerà di sessanta punti. Questi dati provano che la comunicazione politica non è trasparente in materia di immigrazione e spesso è motivata solo da scelte ideologiche e di parte. Perché, se questi dati sono veri, la maggioranza di governo firma dichiarazioni che vanno in senso opposto, come quella del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida che ha recentemente affermato: «Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro». 

Procura disagio e fastidio questo atteggiamento che sposa logiche semplificatrici, partigiane, ideologiche e propagandistiche, soprattutto di fronte a questioni complesse come quella dell’immigrazione. C’è da troppo tempo in politica una propensione a cavalcare strumentalmente e a ostentare certezze laddove le soluzioni sono incredibilmente incerte, controverse, discutibili.

Ecco perché è senza senso la frase del ministro Lollobrigida. Come si può parlare di “sostituzione etnica”! 

Questo equivoco, per utilizzare un eufemismo, viene da lontano. In effetti quella che abbiamo ereditato dalla storia è una concezione « etnica » della nazione, che enfatizza la comunanza linguistico-culturale, la condivisione di un territorio e di una discendenza, in una parola la retorica dei Fratelli d’Italia. Non è così. La sfida che ci lancia l’immigrazione sta, invece, nel fatto di obbligarci a ripensare ai caratteri costitutivi della nostra comunità politica, secondo criteri più coerenti con la sua composizione eterogenea. La percezione di una presunta « minaccia identitaria » se proprio la si vuole ostacolare, si contrasta diffondendo la consapevolezza che ciò che dobbiamo difendere sono i principi e i valori che qualificano l’identità di una democrazia. E tra essi vi sono valori come la protezione dei più vulnerabili, il diritto d’asilo, la libertà religiosa. In quest’ottica il modello di integrazione italiano è miope, appiattito sui vantaggi del breve periodo (quello, in particolare, di disporre di una manodopera adattabile e a buon mercato, facile da utilizzare per i propri interessi), ma non attento alle esigenze di sostenibilità e ad una visione del futuro. 

Bisogna trovare un modo di regolare i flussi migratori e proporre salari corretti ai lavoratori immigrati. Salari bassi e lavoro irregolare producono una popolazione molto fragile e indifesa dal punto di vista economico. Già oggi quasi un terzo delle famiglie immigrate in Italia vive in condizioni di povertà. Il lavoro, che dovrebbe essere il principale canale di integrazione, si trasforma troppo spesso in fattore di esclusione e di amplificazione del malessere sociale.

È ovvio che ricette facili e risolutive non ce ne sono. Riconoscerlo e rinunciare ai toni esagitati e propagandistici sarebbe già un primo, utile passo per mostrare di essere all’altezza delle dimensioni globali ed epocali della sfida. Più semplicemente per mostrare di essere, non dico gente di cuore, ma almeno seri e onesti. Morale della favola: è impossibile, oltre che ingiusto, essere felici da soli.