Il processo-spettacolo, in cui Giuseppe Musolino fu condannato all’ergastolo, trasformò un bandito calabrese in giustiziere.

Chiddu chi non potti n’esercitu, potti nu filu” recita il detto calabrese, a ricordare il filo di ferro di una vigna che riuscì lì dove un esercito aveva fallito. Il brigante Musolino finì infatti la sua fuga proprio a causa di un cavetto: inseguito da due carabinieri, inciampò e venne finalmente catturato. Un finale tragicomico per un’imponente caccia all’uomo la cui eco, all’alba del Novecento, aveva addirittura oltrepassato i confini italiani. “Colpa” di un pasticciaccio giudiziario che attirò sul “Brigante Musolino” l’attenzione del mondo.
Il contesto storico in cui si muoveva Giuseppe Musolino era quello di un’Italia infiammata dalla guerra contadina, a sua volta alimentata dalle condizioni di estrema povertà in cui vivevano le popolazioni del Centro-Sud. Una condizione di miseria e frustrazione che sfociò nel noto fenomeno del brigantaggio. In alcuni casi il brigantaggio rimase confinato a un simplice fenomeno di criminalità. Ma più spesso prese la forma di ribellione sociale, con figure di banditi assurte a eroi nazionali o trasformate dalla letteratura e dal cinema (lo stesso Musolino ispirò un film di Mario Camerini del 1950, con le star dell’epoca, Amedeo Nazzari e Silvana Mangano) in ribelli romantici che si opponevano alle costrizioni di uno Stato poliziesco.

Roberto Mammì / Focus Storia