« Siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino ».

Queste le parole stampate sui duemilatrecento scatoloni di mascherine e materiale sanitario che un volo dell’Air China ha recapitato a Torino ai primi di marzo. In Italia divampava il contagio.
Qui Napoli, le sue strade deserte e, nei giorni di sole, disperse nella polvere, come nel film omonimo di Antonio Capuano. Intrappolata in un tempo rarefatto, incatenato, interrotto. Sospeso come il caffè che, da queste parti, si lascia pagato al prossimo viandante o la spesa al supermercato poggiata ai piedi della cassa dai pochi per quei tanti che ne hanno bisogno. Tante anche le storie di solidarietà da raccontare. Quella di Federica, una studentessa di medicina di ventitré anni che lancia una campagna di raccolta fondi per l’Ospedale Cotugno, con l’obiettivo di arrivare a cinquecento euro. In sole due settimane i contributi raggiungono circa ottocentomila euro.

Nel frattempo, nei paesi vesuviani, proliferano le realtà domestiche e le piccole fabbriche che costruiscono mascherine con federe di lenzuola, tela, cotone, panni di carta, assorbenti, jeans, traversine di cani. Un coacervo tra arte di arrangiarsi e umanità che produce dispositivi di protezione che le reti sociali, le associazioni religiose e laiche e i comitati di quartiere distribuiscono ai cittadini. Lo Sgarrupato e il DAMM del rione Montesanto, il Tabita Onlus ai Quartieri Spagnoli, l’ex Opg e il Giardino Liberato al Cavone e alla Sanità, la Brigata Vincenzo Leone tra i senza fissa dimora della Ferrovia, l’Area Flegrea Solidale a Bagnoli, il BAM a Scampia. È una solidarietà di vicinato che allarga la sfera della cura dall’ambito familiare al rione, al quartiere, alla città. Questa rete di mutualismo solidale distribuisce anche derrate alimentari e sostegno psicologico alle tante famiglie escluse dal raggio d’intervento istituzionale. I numeri forniti riportano, in circa un mese, quasi duemila famiglie supportate, ottomila pacchi spesa consegnati, cinquantamila euro raccolti con iniziative di crowdfunding.

Si attivano organizzazioni impensabili: gli immigrati, che sopravvivono ancora con le mance nei parcheggi dei supermercati, fungono da vettori per far arrivare alimenti alle migliaia di irregolari accampati a Castel Volturno. Serve cibo a intere comunità di ghanesi e nigeriani che vivevano di espedienti interrotti dal Covid: vendita di fazzolettini ai semafori, raccolta frutta nell’entroterra, manodopera giornaliera nei cantieri edili. Ore nove, passo per la mensa della Chiesa del Carmine. Qui ci sono i volontari di Responsabilità Popolare che preparano centoquaranta litri di ragù. Temono che non sia sufficiente. Alle dieci e trenta l’assalto: settecento questuanti, immigrati, paria, tossici, licenziati, entrano scaglionati dalla piazza principale. In era pre-Covid ne sarebbero stati trecento. Mi sposto nel quartiere Sanità. Nel punto di distribuzione della Comunità Sant’Egidio è un incrocio tra chi prende e chi dona. Non c’è differenza visibile tra poveri e ricchi. Si somigliano tutti, come se fosse solo un caso, di questi tempi, avere la possibilità di comprare cibo o non averla. Rubo in alcune espressioni la premura di dare, in altre l’imbarazzo e la furtività nel prendere. Solo questo tradisce differenza.
Qui Napoli, come l’Alfama di Lisbona, la sua gente vive ancora nel centro. La gentrifugation non ha infettato queste resistenze. Nelle stesse cinquantasei giornate, è tra quei vichi che spuntano due panieri di vimini. Su di essi c’è un foglio bianco, con la frase di Moscati ‘Chi può metta chi non può prenda’. Da chi abita i terranei che affacciano su strada a chi le terrazze sul golfo, dal Rione Luzzatti di Elena Ferrante a chi è vicino al Palazzo Donn’Anna di Raffaele La Capria, tutti insieme, di sera, intoniamo, in uno struggente flash mob, Abbracciame del cantautore Andrea Sannino. Abbracciami per vincere il confinamento, la distanza, la paura, la vulnerabilità. Quella che abbiamo scoperto nelle nostre vite svendute all’ipermobilità globalizzata. Tutti accomunati in un’intensa panpatia, come l’ha definita il filosofo Aldo Masullo, prima di lasciarci alla vigilia della giornata italiana della Resistenza.

Passiamo ora ai personaggi che meritano l’ingresso ufficiale nel presepe napoletano, dove i maestri artigiani, negli anni, hanno plasmato pastori con le sembianze di Maradona, Pino Daniele, Fidel Castro, Bud Spencer. Un pastore rappresenterà sicuramente il Prof. Paolo Ascierto, Direttore dell’Unità di Oncologia e Immunoterapia dell’Istituto tumori Pascale di Napoli. L’immaginario napoletano è potente: già lo street artist Jorit lo ha ritratto coi segni tipici da guerriero della Human Tribe e venduto l’opera all’asta, devolvendone il ricavato agli ospedali. Ascierto ha avuto l’intuizione di somministrare da subito il farmaco anti artrite reumatoide Tocilizumab ai pazienti affetti da Covid-19, di concerto con l’Ospedale Cotugno.
Quest’ultimo, tra l’altro, è stato indicato da Sky Regno Unito come la migliore struttura ospedaliera italiana, specializzata in malattie infettive, per la gestione in sicurezza di pazienti e personale sanitario. Ascierto ha dimostrato intuizione e capacità di networking, sinergizzandosi tempestivamente con la comunità scientifica cinese che aveva già collezionato dati confortanti sull’utilizzo del farmaco. Ne ha messo a punto un protocollo di somministrazione, validato dall’AIFA (agenzia italiana del farmaco) e poi esteso ad altri ospedali nazionali tra i quali lo Spallanzani di Roma. La stessa Roche, casa produttrice, sensibilizzata dai risultati promettenti, lo ha messo a disposizione gratuitamente. Tuttavia il pastore più gettonato non sarà lui.

Ahimè, la scienza è sempre meno popolare dello spettacolo. Le mani preziose dei maestri artigiani si profonderanno nel plasmare argilla sulle fattezze del Presidente della Regione Vincenzo De Luca. Più comico della sua stessa imitazione fatta da Crozza, con un muso prominente che ne rende l’espressione incredibilmente simile a quella di Totò. Il tono di voce perentorio delle sue dirette ne ha fatto esplodere il gradimento tra social e trasmissioni televisive. Il suo viso è diventato un meme, un’emoticon che i napoletani lanciano nelle chat di amici per rappresentare iconicamente il ‘vi chiudo’. Le sue espressioni entrano di diritto nel teatro napoletano e vanno annoverate: ‘Rimanete chiusi in casa e fate la pastiera, anche se sarà una sozzeria’ esortando a un ritorno a cimentarsi con la tradizione; ‘Se le Regioni del Nord aprono, la Campania chiuderà i confini’ aizzando lo spirito meridionalista alla secessione dal Nord efficientista; « Feste di laurea? Vi mando i carabinieri con il lanciafiamme » per spegnere l’entusiasmo dei neodottori in era Covid che avrebbero ambito a festeggiamenti in pompa magna. Quest’ultima uscita ha già scatenato la fantasia di un artigiano di Cercola che lo ha miniaturizzato in ceramica, armato di lanciafiamme e pergamena. Oltre alle sue doti ironiche e apotropaiche (« In Campania dobbiamo combattere due nemici: il virus e i porta seccia ») va anche sottolineato che il suo approccio da sceriffo, con ordinanze restrittive rispetto a quelle del Governo, ha protetto dal contagio una regione che, nei centri costieri, conta una densità abitativa pari a Singapore.

La sua levatura da governatore giganteggia in uno scenario politico internazionale e nazionale in cui vanno annoverate l’esortazione all’immunità di gregge fatta inizialmente da Boris Johnson, le iniezioni di disinfettante consigliate da Trump, le sedute spiritiche di Renzi che gli fanno dire che i morti di Bergamo e Brescia direbbero di ripartire, l’invito di Salvini a riaprire le chiese a Pasqua in pieno contagio. Il contrappeso alla sua teatralità è dato senz’altro dalle importanti azioni di gestione dell’emergenza: la costruzione in sole tre settimane di un COVID center presso l’Ospedale del Mare, nella periferia orientale, che consentirà di concentrare i pazienti Covid liberando le altre strutture sanitarie; il lavoro di tracciatura e intercettazione, via ASL e forze dell’ordine, delle circa tremila persone rientrate dalle aree critiche del Nord e il disinnesco, così, di potenziali focolai; la richiesta a muso duro alla Protezione Civile e al Governo di inviare in Campania dispositivi sanitari e tamponi in un momento in cui scarseggiavano finanche per il personale del centodiciotto; il lancio di un piano economico da circa un miliardo di euro a supporto di settantamila professionisti, settantacinquemila piccole imprese, trentottomila studenti universitari, a mezzo borse di studio, il sostegno integrativo alle pensioni minime. In definitiva, in questa emergenza sanitaria, i napoletani non sono stati ‘lazzaroni e pulcinelli, ladri e bifolchi’ come Leopardi ebbe a definirli. Hanno prevalso il coraggio, l’educazione sentimentale e l’improvvisata capacità auto-organizzativa già dimostrate nelle quattro giornate che resero Napoli la prima città dell’Europa occupata a liberarsi dalle truppe naziste.

Dalla mia finestra scorgo un vecchietto col bastone che si avvia lentamente verso il supermercato rionale. Sarà uno dei ‘bimbi del ‘40’ come li ha definiti lo scrittore Antonio Scurati, i ragazzi della speranza, gli uomini della ricostruzione. In un memorabile articolo su Repubblica, il vincitore del Premio Strega 2019 continua a evocarli: ‘Una generazione che ha visto la guerra, ne ha sentito l’odore e le privazioni…mani indurite dai calli, visi segnati da rughe profonde, mani che hanno spostato macerie, impastato cemento, piegato il ferro, in canottiera e cappello di carta di giornale…Scalarono l’esistenza con il fiato immenso di un ciclista in fuga ma hanno esalato il loro ultimo respiro spolmonati’. Il vecchietto indossa una mascherina, si ferma per attraversare la strada, arranca ma ce la fa. È ancora lui il simbolo della voglia di tornare a essere umani e riprenderci, con responsabilità, la nostra vita.

Paolo Di Petta