Le infrastrutture sono un bene comune di cui si è sempre occupato lo Stato. Fra poche proteste, e mai per l’ambiente, preoccupazione tutta moderna.

“Quando il Moncenisio sarà perforato e attraversato dalle locomotive, quando in tutte le stagioni dell’anno voi potrete spedire merci da Genova, da Torino, a Lione ed a Ginevra, siate certi che il traffico interno ed esterno cresceranno in una proporzione enorme. I nostri prodotti troveranno vantaggiosi mercati e la loro esportazione potrà aumentare immensamente”.
È l’agosto 1857, qualche anno prima dell’Unità d’Italia: il Conte di Cavour arringa così il parlamento del Regno di Sardegna per convincere i deputati ad approvare la costruzione di un tunnel ferroviario tra Torino e la Savoia. Di lì a poco re Vittorio Emanuele II ordinerà l’inizio dei lavori di scavo stanziando 42 milioni di lire, una cifra enorme per l’epoca. Il traforo del Frejus verrà inaugurato infine il 17 settembre 1871. All’epoca nessuno si oppose all’opera, né mostrò preoccupazione per l’ambiente. Tutti erano convinti che la ferrovia fosse portatrice di progresso. In seguito fu poi la rete autostradale, soprattutto quella realizzata nel secondo dopoguerra, ad assumere il ruolo di acceleratore del Paese che era appartenuto alle ferrovie all’indomani dell’Unità d’Italia. Ma in passato le infrastrutture sono sempre state viste come metafora del progresso? Lo abbiamo chiesto a Stefano Maggi, docente all’Università di Siena ed esperto di economia e politica dei trasporti.

RICCARDO MICHELUCCI / Focus Storia