Qualunque musica ascoltiate, è legata a una piccola rivoluzione lontana e italiana. Stiamo parlando dell’uomo che ha trasformato la musica in disciplina scritta. Siamo intorno al 1020 e il monaco Guido d’Arezzo, grazie a un insieme di innovazioni teoriche e pratiche esemplarmente chiari, inventa il tetragramma. La notazione musicale del tempo riportava i segni delle note (i neumi) senza specificarne l’altezza: Guido, invece, trascrive i neumi su un rigo di quattro linee – il tetragramma – contrassegnate da lettere-chiave, in modo da indicarne con precisione l’altezza.
Un’altra sua innovazione è la scala di sei note, ciascuna più acuta di un tono rispetto alla precedente e che viene associata alle sillabe iniziali dei primi sei emistichi di un noto inno a San Giovanni, del quale probabilmente Guido adatta la melodia: UT queant laxis – REsonare fibris / MIra gestorum – FAmuli tuorum / SOLve polluti – LAbii reatum. Può sembrare una banalità, ma l’idea è geniale, considerando che, senza uno strumento a intonazione fissa a fare da riferimento assoluto, era praticamente impossibile ricordare il suono di una nota svincolandolo dal canto nel quale compariva. Insomma, con la scala di sei note che in gergo si chiama solmizzazione, i cantori familiarizzano con un sistema di note preciso e imparano a intonare gli intervalli. Nascono così il solfeggio e le note tuttora in uso nelle lingue neolatine, tranne UT, sostituita nel XVII secolo dal letterato Giovanni Battista Doni con DO, la prima sillaba del proprio cognome, più adatta al solfeggio.