Cinquant’anni fa, il 9 ottobre 1963, sul confine tra Friuli e Veneto una gigantesca inondazione cancellò, in pochi minuti, interi paesi e uccise quasi 2.000 persone. Quella tragedia non fu solo fatalità.

Una tragedia prevedibile. Come fu appurato dall’inchiesta voluta dal ministero dei Lavori pubblici. La diga del Vajont, costruita per sfruttare al massimo la forza delle acque del bacino del Piave, era allora la più alta del mondo ed il canyon scavato dal torrente Vajont nel suo cammino verso il Piave era uno dei più profondi. Il lago artificiale avrebbe avuto una capacità straordinaria di contenimento dell’acqua e avrebbe prodotto molta energia elettrica. Anima fragile. La valle era certo capiente ma non adatta allo scopo dal punto di vista geologico, come rivelarono alcune perizie tecniche, per esempio quelle del tecnico austriaco Leopold Müller. I rischi prospettati dal geologo furono confermati da una prima frana, tre anni prima del disastro. Il 4 novembre 1960 alle 12:20, 750.000 metri cubi di materiale franarono dal monte Toc, dopo il primo riempimento dell’invaso, che aveva raggiunto quota 650 metri. Ma la Società adriatica di elettricità (Sade, acquisita poi da Montedison), proprietaria della diga, sapeva che nonostante tutto non ci sarebbero stati problemi ad ottenere le autorizzazioni statali.