Un giorno, gli storici che punteranno la lente sull’Italia a cavallo fra Novecento e inizio del Terzo millennio riusciranno forse a cogliere, con sguardo retrospettivo, quale combinazione di forze, eventi e ingredienti ha permesso a un umile prete torinese di diventare un simbolo della coscienza civile della Penisola decisa ad alzare la testa contro la tracotanza e l’incubo delle mafie.

Don Luigi Ciotti ci riceve in una vecchia fabbrica della Fiat divenuta la sede torinese del Gruppo Abele, da lui fondato 50 anni fa: una grande avventura di solidarietà accanto agli esclusi, dai tossicodipendenti alle prostitute, passando per i migranti. Esattamente 20 anni fa nasceva invece Libera, la fondazione antimafia voluta dal sacerdote dopo l’orrore delle bombe e stragi mafiose che fra il 1992 e il 1993 gettarono nello sconforto l’Italia. La quale, da Palermo a Milano, passando per Roma e Firenze, fu posta di fronte a una «piovra» pronta a tutto per dimostrare la propria invincibilità.

Per don Ciotti, questo 2015 reca con sé una strana «addizione esistenziale»: 50 + 20 = 70. Nato ai piedi delle Dolomiti, prima di giungere prestissimo con la famiglia a Torino, il sacerdote compirà infatti 70 anni a settembre. Tanti anniversari in pochi mesi meritavano una riflessione sulla strada percorsa e quella da percorrere. E don Ciotti, da uomo controcorrente, ha scelto a sorpresa di offrirla alla Francia e agli italiani di Francia, ancor prima che all’Italia. Il volume Un prêtre contre la Mafia, edito da Bayard, è già da aprile nelle librerie francesi.

Una scelta non casuale, dato che il sacerdote intende più che mai far comprendere che la mafia è oggi una piaga non solo italiana, ma internazionale: «Che l’Europa abbia monitorato 3.600 organizzazioni criminali è la dimostrazione che s’incomincia a prenderne coscienza. Ricordo quando anni fa fui chiamato per la prima volta in commissione a Bruxelles. Ci fu un grande interesse per le cose dette durante l’audizione. Ma non è sempre stato così. Non a caso, Libera è oggi presente a Parigi e persino in Svezia, dove una bravissima donna magistrato ha sollevato il coperchio sulle infiltrazioni della criminalità, laddove nessuno avrebbe mai immaginato. La ’ndrangheta calabrese è arrivata fin lì: investimenti immobiliari, nella ristorazione, nelle costruzioni. Esperienze che ci hanno insegnato a non escludere più nulla. A guardare con attenzione ad ogni latitudine. Oramai tutti sanno che il Lussemburgo, ad esempio, è diventato la lavanderia nella quale i capitali illeciti vengono ripuliti e reimmessi sul mercato».

Per non essere frainteso, Don Ciotti chiarisce che non ha pubblicato il libro in Francia per dare «lezioni di antimafia» a un Paese straniero. Un’umiltà costante continua a guidare il lavoro quotidiano del fondatore di Libera. Ma di certo, il prete torinese, abituato a viaggiare in tutt’Europa e ben oltre per conferenze e convegni, resta spesso ferito dai modi grossolani con cui, fuori dall’Italia, si evoca il dramma mafioso: «Ci sono tante forme d’arte che hanno finito per esaltare la mafia e i mafiosi. A tal punto che ti capita di andare in Paesi europei come la Spagna, l’Austria, la Germania e molti altri, nei quali trovi dei ristoranti in cui ricorre la parola “mafia”, oppure “padrino”. Addirittura, c’è chi espone le foto dei boss mafiosi. Ma si rendono conto che stanno giocando con le nostre ferite? Con i nostri drammi? Dal 1992 ad oggi, la guerra di mafia solo in Italia ha fatto più di 3.500 morti. E tra quei morti ci sono vittime innocenti uccise per strada, ammazzate per sbaglio».

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Daniele Zappalà