Va pazzo per il jazz ed è appassionato di arte moderna. Cita Kandinsky e Picasso, e ultimamente il suo ristorante, Osteria Francescana di Modena, è stato eletto il migliore del mondo.
RADICI ha fatto un tuffo nel mondo gastronomico, e non solo, di Massimo Bottura.

“Quando sono stato chiamato sul palcoscenico ho avuto la sensazione che il mio cuore scoppiasse. Era una sensazione pazzesca. Solo in quel momento ho capito l’importanza che quel premio aveva per me”. Il premio di cui parla Massimo Bottura – modenese, classe 1962 – è il The World’s 50 Best Restaurants per la prima volta vinto da un ristorante italiano. Bottura è sulla vetta più alta della gastronomia mondiale.

Da quella premiazione a New York sono passati alcuni mesi, ma il ricordo di quella serata è ancora nitidissimo. Seduto accanto a lui lo chef francese Alain Ducasse che si alza subito per congratularsi. Fu del resto lo stesso Ducasse che una volta gli strappò di mano gli appunti urlando: “Basta con questi appunti! Sai tutto. Devi solo trovare la tua strada”.

Oggi, Massimo Bottura quella strada l’ha davvero trovata. Da molti anni del resto è lo chef italiano di maggiore successo. Bastano pochi dati per confermarlo: terza stella Michelin conquistata nel 2012, nel 2015 la Guida Espresso gli conferisce 20 punti su 20 (la prima volta nella storia della Guida Espresso) e negli ultimi 5-6 anni il suo ristorante è considerato il migliore in Italia. Ora si aggiunge anche il titolo di Migliore Ristorante del Mondo.

RADICI lo ha incontrato all’Osteria Francescana per parlare di sogni, passioni e ispirazioni musicali. E se qualcuno pensasse che il successo gli abbia dato alla testa, facendolo atteggiare a primo della classe … beh, deve ricredersi. Bottura è una persona di grande affabilità e gentilezza, oltre che un generoso chiacchierone e un attento ascoltatore. Con la spontaneità tipica italiana ci invita subito a dargli del tu e poi scusarsi per il disordine nell’ufficio.

Allora iniziamo pure l’intervista. Che cosa significa essere lo chef italiano di maggiore successo?

Il successo è una bella cosa, senza dubbio. Spesso rappresenta il raggiungimento di un obiettivo prefissato o non necessariamente atteso. Ma poi è soprattutto una prova di talento di tutta una squadra, quella dell’Osteria Francescana. E poi vorrei aggiungere che lavoriamo in primo luogo, per i nostri clienti, per dare loro un’esperienza fuori dal comune. Di solito, scherzando, dico sempre che ogni piatto che prepariamo è come giocare una finale di Champions League.

Qualche anno fa la Francia ti ha nominato “migliore chef del mondo”. Che rapporto coltivi con l’esagono?

Mon Dieu! Ho un sacco di cose per cui ringraziare la Francia. La conoscenza della cucina francese, che valuto molto importante, l’ho imparata grazie allo chef francese Georges Cogny, che ha trascorso diversi anni a Piacenza, nei pressi di Modena. Mi ha insegnato un sacco di cose. Poi, all’inizio della mia carriera, ho trascorso 6 mesi al famoso Hotel de Paris a Monaco con Alain Ducasse. Era nel 1992, quando Ducasse stava rivoluzionando la cucina francese. Un’esperienza incredibile e importante per la mia professione.

Però, so che c’è stata anche un’altra fonte d’ispirazione, che ti ha…

Sì, ma certo. Il grande Adrià [Ferran Adrià, famoso cuoco spagnolo, ndr.]. Anche in questo caso si può parlare di un periodo straordinario. Eravamo un gruppo di cuochi giovani e stavamo sempre dietro ad Adrià. Ricordo che iniziavamo presto la mattina e tiravamo avanti fino a sera tardi. Eravamo ipermotivati. In quel periodo ho veramente imparato a ragionare con la mia testa. Ho lasciato perdere le vecchie ricette. Al contrario, ho imparato ad essere più intuitivo e a seguire il mio istinto.

Ma andiamo indietro nel tempo. Come è iniziato il tuo interesse per il cibo e l’arte della cucina?

Per me la cucina è sempre stata un luogo sicuro. Mi spiego: a casa ero il più piccolo di cinque fratelli. Ero piuttosto birbantello, e spesso i miei fratelli m’inseguivano per farmi pagare caro qualche dispetto che gli avevo fatto. Correvamo attraverso la casa e alla fine finivo per trovare rifugio in cucina, sotto il grande tavolo dove mia madre e la nonna erano intente a preparare pietanze per tutta la famiglia. Forse è a questi episodi dell’infanzia che devo il fatto di considerare la cucina come un posto sicuro, un rifugio. Posso aggiungere che sia mia madre che mia nonna erano brave cuoche. Mi ricordo in particolare quando preparavano la pasta fatta in casa per fare tortellini o tagliatelle e la sollevavano contro la luce per assicurarsi che avesse il giusto spessore.

Insomma, una famiglia molto appassionata di cibo.

Mamma mia! Tutta la famiglia. I miei fratelli, i miei genitori. Ricordo che spesso andavamo a mangiare fuori, in un super-ristorante vicino a Parma, al Cantarelli, che all’epoca aveva due stelle Michelin. Altre volte mio padre ci portava a mangiare nel ristorante di Gualtiero Marchesi [il cuoco inventore della cucina moderna in Italia, ndr.]. Era prima che Marchesi ottenesse le 3 stelle Michelin. Insomma, siamo sempre stati centrati su questi aspetti e non potevo rimanerne immune!

Invece la tua carriera come cuoco?

Il tutto è iniziato quando mio fratello Paolo mi disse che uno dei suoi amici stava vendendo un ristorante. Pensai subito: mi butto! E cosi è stato. Ricordo che il primissimo giorno non avevo il coraggio di entrare nella sala per vedere la reazione dei clienti. All’epoca praticavo la classica cucina francese focalizzandomi sulle materie prime locali. Pensavo che nel paese si bisbigliasse che fossi mezzo matto!

Arte e musica

Bottura, com’è ovvio, ama parlare di cibo. Ma se tocchi argomenti come l’arte contemporanea e la musica puoi stare sicuro che il cuoco si trasforma immediatamente in critico d’arte e recensore musicale. E poi c’è un’altra parola chiave: il sogno.

Perché i sogni sono importanti?

Lo sono perché sognare vuol dire fissare degli obiettivi nella vita. Molti italiani hanno smesso di sognare. Noi italiani stiamo diventando un popolo di semidepressi, probabilmente a causa della crisi. Non ci sono speranze per il futuro, nessuna ambizione. Molti italiani hanno dimenticato lo stress positivo che nasce quando siamo indaffarati con cose che ci appassionano.

È vero che tu i sogni e l’ispirazione sembri trovarli spesso nella musica e nell’arte?

Sì, esatto. Per me l’arte contemporanea è molto stimolante. Come vedi Osteria Francescana è piena di arte moderna. Prendiamo le opere del pittore russo Wassily Kandinsky ad esempio. Lui m’ispira tantissimo. La sua famosa piramide spirituale l’ho fatta mia nel senso che in cima alla mia piramide gastronomica ho messo la più fine creatività, poi appena dopo viene la manualità tecnica e infine la qualità delle materie prime. Questi sono, secondo me, i tre fattori del mio mestiere che devono interagire per raggiungere un livello sublime.

E la musica invece?

Sono cresciuto con la musica, soprattutto con il jazz. La mia collezione di dischi jazz è ricca di circa dieci mila pezzi. Per me musica vuol dire passione. È la stessa passione che metto nel mio lavoro. Prediamo, ad esempio, il jazzista americano Thelonious Monk. All’inizio della sua carriera molti lo consideravano un pazzo perché suonava in un modo completamente nuovo. In realtà, attraverso la musica, cercava solo le sue radici africane. L’hanno capito in pochi, tra cui Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Per me è una bellissima storia perché fa da metafora dell’importanza di credere in se stessi. Credere che ciò che stai facendo sia la cosa giusta. Ovviamente con la giusta proporzione di modestia e umiltà.

Sentendoti parlare mi fai pensare piuttosto a un cuoco-filosofo…

No, non credo. Ciò di cui parlo è semplicemente passione. La passione per la letteratura, per la musica, per il godimento visivo. La passione di approfondire un interesse. Ricordati: la passione vuole dire sentimenti e stati d’animo. La passione di approfondire una conoscenza che poi potrà trasformarsi in ispirazione per inventare un nuovo piatto. Infatti, spesso i miei piatti nascono per via di sentimenti o certi stati d’animo.

Prima hai detto che Monk cercava le proprie radici. Hai fatto la stessa cosa in cucina?

Ah sì, certamente. Sottoscrivo il manifesto dell’importanza di mettere in luce le materie prime locali, l’importanza della biodiversità locale. Anche altri lo fanno con successo, ad esempio il mio amico-cuoco René Redzepi del Noma, a Copenaghen.

La ricerca dei valori tradizionali

Essere un cuoco ad altissimi livelli non significa, però, muoversi sempre in ambienti di glamour. Almeno non per Bottura. Perché avere talento, vuol dire anche avere responsabilità. E Massimo Bottura è chiaramente disposto ad assumersi responsabilità per dare una mano agli altri. Lo testimonia la recente iniziativa negli ultimi Giochi Olimpici a Rio, dove Bottura, insieme al Comune di Rio, ha lanciato il progetto “RefettoRio”, in cui un gruppo di chef selezionati ha utilizzato il cibo in eccedenza dal villaggio olimpico per cucinarlo per gli abitanti delle favelas.

Come hai vissuto questa esperienza?

È stata un’esperienza unica, un progetto che è nato da EXPO dello scorso anno a Milano, dove il tema principale era come evitare gli sprechi alimentari. Pensa che circa il 30% di tutto il cibo prodotto nel mondo viene sprecato. Non è possibile, non nel 2016.

Come hanno accolto il progetto, gli abitanti delle favelas?

Puoi immaginare, molto positivamente. Il terzo giorno dopo la nostra apertura, c’erano code lunghissime dove si distribuiva da mangiare. Ma soprattutto attraverso questo progetto, abbiamo cercato di entrare in contatto con alcuni dei gruppi più difficili delle favelas. Un esempio di come il cibo possa servire anche a essere fattore di inclusione nei progetti sociali. Ora abbiamo in programma di lanciare iniziative simili a Torino e Palermo.

Tu sei nato innovatore, ma cosa pensi in generale della tradizione?

Per me questi due concetti camminano insieme. Quando si raggiunge un certo livello come chef, la conoscenza scientifica e chimica di alcuni prodotti può far scattare una possibile innovazione. E va bene, ma solo se si tiene conto della base, della tradizione.

E quale posto ha per te l’aspetto estetico dei piatti?

L’estetica del cibo è importante. Ma non è la cosa più importante. Oggi l’etica è più importante ancora. Viviamo in un tempo in cui molte persone vivono una crisi profonda. La gente è alla ricerca non solo di bellezza, ma soprattutto di verità e giustizia. Nella mia professione, per esempio, l’etica significa rispetto per gli ingredienti e per i contadini e i pescatori che li lavorano. Mi trovo completamente in sintonia con la filosofia di Slow Food. Io vedo, nonostante tutto, un ritorno ai valori tradizionali.

Molti dei tuoi piatti hanno nomi piuttosto stravaganti, come ad esemio “Oops! Mi è caduta la crostata al limone” oppure il foie gras con la forma di un ghiacciolo. Perché?

Beh, prendiamo il foie gras, uno dei piatti più raffinati. Ho deciso di farne una versione più ‘rilassata’ in forma di ghiacciolo classico. Il mio foie gras contiene aceto balsamico di Modena e Calvados, ed è coperto di nocciole caramellate del Piemonte e mandorle della Sicilia. Lo serviamo nella forma di un ghiacciolo, il che ovviamente lo rende molto più informale! Invece “Oops! Mi è caduta la crostata al limone” è nato il giorno in cui ad uno dei nostri camerieri è caduto un dessert in cucina. Il gusto di questo dessert è un gioco di contrasti fra dolce e salato. Un altro esempio è il piatto “La patata, che voleva essere un tartufo.” Questo nome è soprattutto un segnale agli italiani. La patata si sente inferiore al tartufo, che ha fama di essere più importante, ma in realtà senza motivo. Perché la patata è una grande radice. Basti pensare che ha salvato la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Perfino Van Gogh ha ritratto mangiatori di patate. La patata non deve in nessun modo compiere chissà quale sforzo per diventare un tartufo. Deve essere orgogliosa di quello che è, perché quando la patata viene utilizzata nel modo giusto, è semplicemente insuperabile.

In conclusione: qual è allora la ricetta giusta per il successo?

Posso dire che sono assolutamente d’accordo con Picasso, quando affermò che “il successo è il 10 per cento di talento e il 90 per cento di duro lavoro”. Almeno così è stato per me. Un’altra parola chiave è ‘passione’. E poi non bisogna dimenticare l’umiltà. Solo con l’umiltà si ha la possibilità di assorbire la conoscenza e l’energia delle persone intorno a voi. Umiltà, però, significa anche vivere momenti di dubbio. Chiedersi se ciò che stai facendo è la cosa giusta. Ecco: passione, umiltà e duro lavoro.

Jesper Storgaard Jensen
Foto: Elliot Erwitt, Per-Andersen Jorgensen, Paolo Terzi e Jesper Storgaard Jensen