Con questo terzo episodio, dedicato agli anni del terrorismo di estrema sinistra e di estrema destra, continua l’approfondimento del regista Marco Tullio Giordana sulla storia recente dell’Italia vista attraverso il prisma della sua industria automobilistica.

Nessuno li ama questi anni Settanta, ricettacolo di tutti i vizi, fucina di tutti i mali. È il decennio della droga, delle manifestazioni con scontri in piazza, dei rapimenti, dei passamontagna, delle rapine, delle Alfette blindate, dei terroristi che dopo le prime azioni dimostrative cominciano a sparare per davvero. È il ritratto, anzi l’autoritratto (perché molti si daranno poi alle belles lettres), della generazione in rampa per essere la classe dirigente degli anni Ottanta e che si dimostrerà molto più spregiudicata dei suoi genitori. Impossibile avere nostalgia di quegli anni, formidabili sì e no.

Per gli artisti invece fu diverso. In ogni metropoli o cittadina, per ogni dove in Italia e nel mondo, si moltiplicarono iniziative culturali oggi impensabili: si aprirono spazi non convenzionali per fare musica, teatro, proiezioni di film, mostre di quadri o installazioni in bulimica sovrabbondanza.

Ma gli anni Settanta, seppur offrono gli spettacoli di Bob Wilson e Meredith Monk, non sono buoni per l’automobile. La crisi petrolifera e l’aumento dei costi sono di certo una causa. Le auto, non solo devono consumare poco ma devono anche sgusciare via inosservate, non dare nell’occhio. La plastica sostituisce legni e metalli, le forme si semplificano per rendere più agevole l’economia di scala e fare a meno di una manodopera ormai svogliata e rognosa. Anche i nostri grandi carrozzieri devono subire richieste mortificanti di linee squadrate e prive di colpi d’ala. Fortuna che ci sono coreani, giapponesi e tedeschi a chiedere progetti, altrimenti si vedrebbero in giro solo scatole di sardine.

Declinano i Grandi Vecchi, largo ai giovani. Uno per tutti: Giorgetto Giugiaro. È stato a bottega da Nuccio Bertone, uno dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse (gli altri erano: Giovanni Battista Pininfarina, Elio Zagato e Felice Bianchi Anderloni che creò la società Carrozzeria Touring. Io aggiungerei un Quinto: Alfredo Vignale). Da ventunenne garzone di belle speranze Giugiaro (aiutato da Mario Boano della Ghia) mette mano nel 1959 al restyling di un capolavoro: la Giulietta sprint disegnata nel 1954 da Ivo Colucci e Giuseppe Scarnati. Giugiaro con pochi ritocchi, concentrati sulla mascherina frontale – il famoso trilobo, un trio di aperture frontali – e sulla fanaleria posteriore, la rimette in forma affinché faccia sognare un’altra generazione, per poi essere sostituita nel 1963 da un altro capolavoro tutto disegnato stavolta interamente da Giugiaro: la Giulia Sprint GT, macchina che avrà molte successive reincarnazioni fino alla 2000 GTV di cui parleremo più in là.
Nel 1969 il disegnatore piemontese si mette in proprio, assieme al socio Aldo Mantovani. Bel rischio per un ventinovenne, anche se subito arrivano importanti commesse. Va detto che Giugiaro, oltre a saper disegnare le auto, sa anche progettarne l’industrializzazione. Quando Volkswagen, Gruppo Fiat (che nel frattempo ha assorbito la Lancia), Alfa Romeo e Hyundai bussano alla sua porta, Giugiaro potrà finalmente disegnare modelli che faranno epoca: Alfasud (1972) e Alfetta (1974) per l’Alfa Romeo, Scirocco e Golf per il gruppo tedesco (1974), Pony (1975) per i coreani, Delta (1979) per la Fiat, in attesa degli anni Ottanta che segneranno la sua definitiva consacrazione.

Sono molte le autovetture che caratterizzano questo decennio, ma quattro per me si mischiano alla Storia dell’Italia. Una storia controversa, che toccherà scrivere e riscrivere perché nulla è così come apparso ai contemporanei e solo il tempo riuscirà a farne la radiografia. La prima autovettura è l’Alfa Romeo 2000 GTV (Gran Turismo Veloce). Non perché sia un modello così speciale, ma speciale è quella targata Roma K69996, appartenuta a Pasolini.

La morte di Pasolini è nota, tutti sanno come andò a finire. Più o meno. In quel più o meno si racchiudono alla fine due possibilità. La prima: fu il ragazzetto Giuseppe Pelosi ad ammazzarlo, riempiendolo di botte e passandoci poi sopra con la GTV. Fu la versione degli investigatori e fece scuola su giornali e televisione perché coerente con la bulimia della sua vita (omo)sessuale. La seconda: Pelosi non era solo, ce n’erano almeno altri due, forse tre aggressori. E qui s’irradiano altre possibilità: chi erano questi due o tre? Ragazzi di vita? Balordi? Una rapina andata male? C’è anche la suggestiva teoria di un’esecuzione politica, dato che Pasolini stava sulle palle un po’ a tutti, con quelle bacchettate a destra e a manca, mai contento, malmostoso, perfino irriconoscente verso l’Italia e la società letteraria che l’aveva innalzato a Vate supremo. Ma chi esattamente lo voleva morto? I fascisti – che in quel periodo ne combinavano di tutte? Magari con lo zampino dei servizi segreti? Tanti anni fa realizzai un film proprio sull’omicidio di Pasolini illustrando tutte queste teorie. A dir la verità tutti i suoi amici erano convinti che fosse stato ammazzato da un gruppo di delinquenti (Pelosi non ce l’avrebbe mai fatta a sopraffarlo da solo) e soltanto Laura Betti insisteva con contagiosa convinzione sulla tesi dell’omicidio politico. Tuttavia anche la Procura Generale qualche dubbio l’aveva per opposte intenzioni; la Betti voleva sapere la verità, la Procura insabbiarla.

Come sia andata veramente sarebbe importante saperlo più per l’Italia che per Pasolini, dato che la sua grandezza non fu minimizzata dalle circostanze della sua morte, anzi ne accrebbe un po’ il mito. A meno che oggi, nella generale rilettura che tutto deve correggere, risarcire, cancellare, non venga invece voglia di processare proprio lui, brutto frocio pedofilo, e magari linciarlo per le scorribande notturne con la GTV a rimorchiare la pezzente gioventù anziché starsene a casa a scrivere poesie.

Al tempo del film (erano passati vent’anni dall’omicidio) cercai di ritrovare la macchina di Pasolini. Mi dissero che era stata demolita. Da poco ho scoperto che invece esiste ancora. È stata restaurata e la possiede una collezionista cui evidentemente non deve fare troppa impressione guidare l’arma di un delitto.

Le altre 3 automobili protagoniste di questo periodo tormentato, sono tutte implicate nel rapimento e nell’omicidio di Aldo Moro: un’Alfetta, una Fiat 130 e, soprattutto, una Renault 4 rossa – modello molto popolare in Italia, per le sue qualità di utilitaria – nella « sconcia stiva » nel quale fu ritrovato il corpo del presidente del Consiglio, « schiacciato come un sacco d’immondizia » Era il 9 maggio del 1978, ma la brutta storia era cominciata 55 giorni prima.

Sull’intera vicenda del sequestro Moro con annesso annientamento della scorta, le modalità, le responsabilità, i basisti, i covi, la presenza o meno di elementi estranei, aiuti, suggeritori, manine di questo o quell’apparato di sicurezza etc., si è aspramente discusso per anni in sede processuale, parlamentare, giornalistica, pubblicistica, e ancora si discuterà a lungo dato che alla fine ha prevalso una versione – diciamo pure “di comodo” – in cui tutti salvano la faccia e si consegnano all’ammirazione dei rispettivi devoti fedeli. Le autorità, istituzioni e forze dell’ordine per aver fatto del loro meglio allo scopo di salvare Moro, pur avendo clamorosamente fallito. I brigatisti perché incontaminati progettisti ed esecutori di un piano autoctono (anatema dunque contro chiunque li sospetti di esser stati strumentalizzati). La Chiesa perché pregò e raccolse i soldi di un eventuale riscatto. I socialisti e i radicali perché cercarono i margini di una trattativa. I comunisti, i democristiani, i liberali, i repubblicani – il fronte della “fermezza” – per aver salvato la Patria, sia pur sacrificandone l’agnello pregiato, ed infine l’informazione perché tenne desta l’opinione pubblica.

Comunque sia, si era rotto un patto – quello su cui si regge la convivenza, il rispetto delle differenze, la pietà verso i vinti e, aggiungo, verso i vincitori. Dunque le immagini dell’Alfetta targata Roma S93393 e della Fiat 130 blu targata Roma L59812 – crivellate di colpi che risultarono micidiali perché non erano blindate – si sovrapponevano nella mia testa alle tavole della Legge, le cancellavano. L’agonia della Repubblica per me comincia lì. Ah, se le auto potessero parlare!

La pubblicistica sul caso Moro è così sterminata che da sola occupa in casa mia due enormi librerie. Due di questi libri, Morte di un presidente e L’ultima notte di Moro, entrambi di Paolo Cucchiarelli, si sono presi la briga d’interrogare l’ultima auto di cui parleremo, la Renault 4 rossa targata Roma N57686. La “sconcia stiva” come disse Mario Luzi.

Anzitutto, la targa: fasulla. Proveniva in realtà da un’Alfetta dell’Alitalia. La Renault era stata rubata all’imprenditore edile Filippo Bartoli che poté rientrarne in possesso nel 1980 ricoverandola sotto una tettoia di casa fino al 2013, anno in cui decise di donarla alla Polizia di Stato di Roma. Oggi si trova esposta al Museo Storico delle auto della Polizia di Stato.

Le auto di cui vi ho parlato in questo terzo episodio, non concludono di certo la vita avventurosa della Repubblica italiana e della sua industria automobilistica. Anche se le nuvole sembrano dissiparsi e la tecnologia promette nuovi orizzonti, il mondo è sul punto di voltare pagina e di cambiare nuovamente tutto. Ne parleremo nel quarto episodio della nostra serie.

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Marco Tullio Giordana, né à Milan, le 1er octobre 1950, est un réalisateur de cinéma, metteur en scène de théâtre et écrivain italien. Il signe son premier long métrage, Maudits, je vous aimerai au 1979, qu'il présentera au Festival de Cannes