Il cantautore milanese si è spento dopo una lunga malattia. Ci lascia canzoni divenute ormai patrimonio popolare, come « La vita la vita » e « Quelli che ».
Nel 1990 gli chiesero come facesse a esercitare contemporaneamente le professioni di chirurgo al Policlinico di Milano e di cantautore: “Per andare a cantare devo prendere le ferie. Io le vacanze le passo così. I miei colleghi vanno a divertirsi ai congressi, a parlare di trapianti e roba del genere. Io, invece, povero disgraziato, canto”. In questa risposta, c’è tutto Enzo Jannacci, che si è spento ieri sera a 77 anni nella sua Milano, che ha raccontato in musica meglio di chiunque altro. Il gusto per lo sberleffo unito a una vena poetica tendente alla malinconia, il rifiuto di farsi codificare, lo hanno reso un personaggio unico fra i cantautori. Compagno di scuola al liceo di Giorgio Gaber, un diploma al Conservatorio, una specializzazione in chirurgia che lo portò in Sudafrica a entrare nell’equipe di Christian Barnard, l’uomo del primo trapianto di cuore, irrompe come un alieno fra la fine degli anni ’50 e gli inizi dei ’60 nella scena musicale italiana. Alterna canzoni in italiano ad altre in dialetto milanese e le canta con una voce nasale, sempre sul filo della stonatura, ma comunque riconoscibilissima. Sfonda con “Vengo anch’io no tu no”, collabora con Dario Fo, Cochi e Renato e Beppe Viola, con cui scrive la strepitosa “Quelli che”, sempre poi aggiornata nel corso degli anni. Per il cinema, invece regala la straziante “Vincenzina e la fabbrica” a Mario Monicelli nel film “Romanzo popolare”. Da tempo non lo si vedeva più sfrecciare con la sua Citroen modello “ferro da stiro” o con il suo motorino a Città Studi, il quartiere universitario di Milano dove viveva. Lo abbiamo visto l’ultima volta in Tv, già fortemente segnato dalla malattia, era il 19 dicembre del 2012 in un programma-tributo di Fabio Fazio, accompagnato dal figlio Paolo, anche lui eccellente musicista con il quale ha scritto le sue ultime canzoni. La professione di medico invece l’aveva lasciata il 1° gennaio 2003, lo stesso giorno in cui moriva il suo amico Giorgio Gaber. Ci piace immaginarli adesso lassù, a cantare ancora una volta, vestiti da Blues Brothers, “Una fetta di limone”, scatenati come due ragazzini a tempo di rock.

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Rocco Femia, éditeur et journaliste, a fait des études de droit en Italie puis s’est installé en France où il vit depuis 30 ans.
En 2002 a fondé le magazine RADICI qui continue de diriger.
Il a à son actif plusieurs publications et de nombreuses collaborations avec des journaux italiens et français.
Livres écrits : A cœur ouvert (1994 Nouvelle Cité éditions) Cette Italie qui m'en chante (collectif - 2005 EDITALIE ) Au cœur des racines et des hommes (collectif - 2007 EDITALIE). ITALIENS 150 ans d'émigration en France et ailleurs - 2011 EDITALIE). ITALIENS, quand les émigrés c'était nous (collectif 2013 - Mediabook livre+CD).
Il est aussi producteur de nombreux spectacles de musiques et de théâtre.